4 Febbraio 2006 - Aula Magna Istituto Tecnico Commerciale -Poppi: VIAGGIO NELLA MUSICA, Un tour di incontri in compagnia di suoni, immagini, notizie e aneddoti guidati da musicisti, interpreti, produttori, musicologi, addetti ai lavori per comprendere il mondo della musica, svelarne i segreti, esplorarne i backstage a cura di Maurizio Principato;

La Canzone: cos'è una canzone e come nasce? Dai canti gregoriani all'indie pop, un'esplorazione a 360° della musica di tutti i tempi, delle maggiori rivoluzioni musicali della storia, del loro riflesso sulla società, sono intervenuti Marco Parente (cantautore), Massimo Fantoni (chitarrista), Roberto Caselli (direttore di Jam), Alessandro Zanoni (designer), ha condotto il pomeriggio Maurizio Principato (giornalista e musicologo).

 

 

 

 

 

“Viaggio nella musica” è un mini-tour alla scoperta dei significati, dei segreti, delle follie e delle complessità che si nascondono dietro e dentro alla musica. Abbiamo intrapreso questa insolita esplorazione per comprendere come nasce una canzone, come si prepara un concerto, come si diffonde la musica. Sono venuti con noi musicisti e addetti ai lavori che hanno messo a disposizione tempo ed esperienza. A tutti loro va il nostro ringraziamento e la nostra stima. Un ringraziamento speciale a Maurizio Principato, giornalista e musicologo, ideatore del progetto che ci ha accompagnato in questo viaggio con la sua professionalità e grande passione per la musica.


Viaggio nella musica – partiamo?

Diciamo subito che tratteggiare una storia della musica sintetica è un'impresa quasi impossibile. Abbiamo cercato piuttosto di evidenziare i passaggi importanti, i momenti salienti ed i cambiamenti strutturali fondamentali che hanno caratterizzato l'evoluzione dell'espressività musicale a partire dall'antichità.

Se volessimo descriverle in modo razionale, le forme musicali (canzone, opera, suite, ecc) sono costituite da un insieme di note, sonorità e/o parole, organizzate e strutturate per essere ascoltate. La musica nacque -agli albori dell'umanità- per scopi rituali.
Nel corso del tempo si è avvicinata sempre di più alla vita dell'essere umano e, oggi, è parte integrante, quando non determinante, delle nostre giornate. La musica ha una forte incidenza sulla nostra componente spirituale, assecondando, enfatizzando o smorzando -a seconda dei momenti e degli umori- gli stati d'animo più disparati. Se siamo allegri l'ascolto di una determinata canzone può renderci euforici. Se siamo appena appena malinconici può portarci a commuoverci profondamente. E può tenerci compagnia in qualsiasi istante, mentre studiamo o lavoriamo, in sala d'aspetto o al supermercato, quando siamo in viaggio, quando una giornata sta iniziando oppure quando si sta spegnendo.
Ma come arriva, la musica, a conquistare una parte così importante nella quotidianità di così tante persone? Quali percorsi segue, a partire dai suoi “esordi” per incarnarsi -ad esempio- nelle canzoni pop che le emittenti radiofoniche ci propongono? E soprattutto perché la musica ha così tanti volti e può assumere -di volta in volta- connotati talmente diversi che, messa a confronto, la stessa composizione può estasiare una persona e disgustarne un'altra?
Con il supporto del giornalista e musicologo Maurizio Principato, abbiamo deciso di esplorare la storia della musica per arrivare a rispondere a queste (e a moltissime altre) domande, seguendo strade che ci hanno portato dalla preistoria agli antichi greci, dal medioevo all'illuminismo, dal dopoguerra al terzo millennio. In ognuna di queste epoche la musica ha seguito il cammino dell'umanità, testimoniando cambiamenti ed evoluzioni.
Il nostro lavoro si è concretizzato in una serie di incontri presso l’Aula Magna dell’ITC di Poppi, ai quali abbiamo dato il nome “Viaggio nella Musica”. Perché di un viaggio si tratta, un viaggio nello spazio, nel tempo, tra le dimensioni dell'espressività. Siamo -sostanzialmente- in tournée, invece di esibirci davanti al pubblico con una serie di composizioni facciamo esibire la musica, i suoi protagonisti, la loro opera omnia, al fine di comprendere meglio il loro lavoro e la loro importanza artistica e sociale. Per questo in ognuno degli incontri l'esposizione teorica è affiancata alla proiezione di video musicali e alla testimonianza diretta di artisti, professionisti, giornalisti, addetti ai lavori, ai quali è demandato il compito di aprire una finestra di visibilità sul loro lavoro.

La prima tappa di “Viaggio nella musica” ha avuto come oggetto 'la canzone'. Nel corso di quest'incontro sono intervenuti il cantante e compositore Marco Parente, il chitarrista Massimo Fantoni, l'insegnante, interprete-regista teatrale e ballerina Alessandra Aricó, il critico musicale e direttore della rivista "Jam" Roberto Caselli, l'esperto di musica e designer Alessandro Zanoni. Ognuno di loro ha contribuito, parlando o interpretando dei brani, a rendere l'esplorazione della canzone ancora più approfondita ed efficace, mentre Maurizio Principato ha illustrato in sintesi, ma in modo molto piacevole ed interessante, la storia della musica a partire dalla Grecia antica sino ad arrivare al XVI secolo e all'affermazione della canzonetta. Il tutto è stato sapientemente riassunto nel primo dei tre volumetti che costituiscono il sussidio cartaceo del nostro "Viaggio nella musica", distribuiti ai presenti in occasione di ogni singolo incontro. Qui di seguito riportiamo i testi del primo.

1. L’ALBA DELLA MUSICA
La ricerca delle origini di ciò che, ancora oggi, intendiamo con la parola “musica” ci porta indietro nel tempo.
Un viaggio a ritroso che si spinge in epoche remote, sino ad arrivare all’antica Grecia, dove una forma rudimentale e primitiva di musica veniva realizzata con un numero esiguo di strumenti a fiato e a corda. Non esisteva ancora il concetto di armonia (ovvero la combinazione simultanea di più suoni ed accordi, basata sui principi della tonalità); la melodia (cioè la successione di suoni di varia altezza e durata, avente senso musicale compiuto) era estremamente elementare e contenuta, quasi timorosa di avventurarsi in territori sonori ignoti; il ritmo praticamente assente.
Era la voce -recitante- a scandire dinamica, avvicendamenti, pause, attacchi. Musica e poesia erano profondamente legate nell’antica Grecia: Omero era il più noto tra i molti cantori che, accompagnandosi con la cetra, andavano “in tour” a declamare versi, più o meno cantati.
Secondo Hermann Abert (musicologo, 1871-1927, autore -tra le altre cose- di una monumentale biografia di Wolfgang Amadeus Mozart pubblicata per la prima volta nel 1919) la musica si divide in ritmo -l’elemento sensuale e fisico-, melodia -l’elemento emotivo e psichico- e sostanza musicale -l’elemento contemplativo, riflessivo ed artistico-. I greci concentrarono la loro attenzione sugli aspetti emozionali della musica, sulla sua potenziale capacità di agire sull’umore e, soprattutto, sulla volontà del singolo individuo, producendo un aumento di energia, oppure una condizione di nervosismo o, ancora, di estasi ed ebbrezza. Meno teorici e ancora meno speculativi, gli antichi Romani ebbero un approccio meramente ludico, voluttuario e concreto con la musica: la usavano nel corso di feste e baccanali, nelle rappresentazioni teatrali, oppure durante cerimonie ufficiali e parate militari.


2. CANTO GREGORIANO E CANTO PROFANO
Fu il Cristianesimo ad elevare spiritualmente la concezione della musica: dapprima per unire officiante e fedeli, poi per dare corpo e forma artistica al sentimento dei divino e dello spirituale, in un crescendo rapito di sublime misticismo.
In seno alla Chiesa, durante il Medioevo, nacque il canto gregoriano, forma musicale liturgica basata sul canto vocale monodico che prende il nome da San Gregorio Magno, il quale definì le regole di base (eliminando o respingendo elementi profani o esotici che esulavano da contenuti prettamente religiosi) e, inoltre, fece un meticoloso lavoro di codificazione e di sintesi. L’opera del santo venne racchiusa nel testo Antiphonarius Cento. I principi di base del canto gregoriano prendevano due nomi, accentus e concentus. L’accentus (o canto sillabico) fu la prima forma di canto sacro e consisteva in una recitazione svolta sulla medesima nota ripetuta (salmodia). Il canto gregoriano non aveva alcuna pretesa artistica: la salmodia liturgica era preghiera, linguaggio collettivo, espressione fisica e spirituale. Per questa ragione era un canto “facile”: doveva essere appreso ed eseguito da tutti i fedeli, anche da coloro che di musica non sapevano un bel niente. Ma nella sua semplicità racchiude un elemento basilare: l’unione tra corpo (voce) e spirito (canto).
Nell’alto Medioevo ci fu uno sviluppo del canto profano, basato su scherzi, novelle fantastiche, storia di vita vissuta o riflessioni sul senso della vita e della morte. La Chiesa non vide di buon occhio questa fioritura artistica -in quanto non liturgica- e organizzò spietate persecuzioni, con lo scopo di cancellare ogni traccia di profanità in campo musicale. Per fortuna questa azione dissennata non ebbe esiti definitivi e ai giorni nostri sono arrivate delle testimonianze importanti, come i Carmina Burana (scritti intorno all’anno 1230 e così’ chiamati perchè rinvenuti nel chiostro benedettino di Beuren, in Germania), una raccolta di canti goliardici e scollacciati dove una lingua latina raffazzonata si mescolava con le nascenti lingue volgari.


3. IL POP DEL MEDIOEVO
Ma fu grazie all’attività di trovatori e trovieri (poeti e musici non stanziali, che esercitavano la loro arte nelle corti francesi e spagnole) che il canto profano si rinnovò ed acquisì una forma definita. L’intonazione della parola e la scansione ritmica acquisirono maggior carattere, rispetto alle ondeggianti (e, verrebbe da dire usando un termine recente, “psichedeliche”) cantate gregoriane. I contenuti, inoltre, allontanandosi dalla contemplazione e dalla devozione, diventarono descrizione o commento della quotidianità. Era, in sostanza, musica pop (da “popular”, cioè popolare), che si fondava su una nuova sensibilità artistica, intenzionata a mettere alla porta l’astrazione e pronta a parlare, anzi cantare della bellezza della natura, della sensualità femminile, dei piaceri della carne e dei dolori della guerra (dolori di ogni genere, dalla morte sul campo di battaglia all’infedeltà delle mogli dei condottieri).
Il tutto racchiuso in quella che viene denominata chanson, eseguita dai raffinati -e un po’ snob- trovatori, sì, ma anche da giullari e menestrelli, che operavano volentieri in contesti aperti (strade, piazze, cortili).
Gli antenati dei nostri Claudio Baglioni, Eros Ramazzotti e Tiziano Ferro furono i Minnesinger, i cantori d’amore, il cui repertorio si basava su canzoni che celebravano l’amor cortese e l’elevazione dello spirito. I cambiamenti in atto nel XIII secolo portarono ad un imborghesimento dei Minnesinger, soppiantati dai Meistersinger: scomparivano freschezza, spontaneità e spirito girovago, in favore di una sedentarietà e di una vuota, arida pedanteria che non produsse nessuna evoluzione significativa.



4. LA NASCITA DELLA POLIFONIA
Con il termine monodia si intende il canto a una sola voce, eseguito da uno o più cantanti, con o senza accompagnamento strumentale. Tra l’inizio del 1100 e la fine del 1200 emersero e maturarono le primissime forme di polifonia, ovvero il canto a più voci: al canto principale si associavano voci concomitanti, che procedevano all’unisono o in contrasto. Sulle origini della polifonia esistono numerose interpretazioni, che la descrivono come generata dall’improvvisazione spontanea scaturita all’interno di gruppi di cantori oppure dall’utilizzo di strumenti musicali che permettevano di mantenere una nota fissa -risonante- di accompagnamento e di suonarne altre contemporaneamente. Naturalmente la polifonia delle origini è rozza e sgraziata, ma il fatto importante è che questo nuovo sviluppo musicale apre strade inesplorate e virtualmente infinite, che partono sempre e comunque dalla cultura popolare. La polifonia suscita l’interesse di esecutori e compositori legati al mondo cristiano. Tra questi va ricordato l’organista della cappella parigina della Beata Maria Vergine (in seguito chiamata Notre-Dame) magister Perotinus Magnus. Vissuto a cavallo tra XII e XIII secolo, Perotinus seppe riunire abilmente fino a quattro voci, orchestrandole con sensibilità ed intelligenza, dando forma al primo esempio di mottetto (una forma sacra polifonica vocale o vocale-strumentale) nel quale muovevano i primi passi l’imitazione a canone -che è la combinazione di una melodia ripresa successivamente da tutte le voci- e un più complesso sviluppo melodico.
La rivoluzione del gusto musicale che prese il nome di Ars Nova nacque in Francia ed era connotata dalla libertà di agire del compositore, che ancor prima di sottostare a regole o schemi, faceva appello al proprio sentire, svincolandosi anche dalle costrizioni imposte -sino a quel momento- dalla parola e dalla metrica latina. Poteva addirittura permettersi di fare uso di dissonanze e frammentazioni ritmiche: una cosa impensabile, almeno sino a quel momento.


5. ED ECCO FINALMENTE GLI ITALIANI!
I fermenti polifonici francesi e tedeschi non trovarono eco
immediata nel nostro Paese (anzi, in quel territorio che, all’epoca, poteva essere identificato come “italiano”) sino alla metà del 1300. Ma quando la polifonia italiana uscì allo scoperto lo fece con una maturità artistica sorprendente, abile nel recepire le istanze musicali dell’Ars Nova e nell’acquisire il sapere delle schiere di musicisti o cantori francesi in transito sul suolo italiano per seguire il Papa durante il trasloco da Avignone al futuro Vaticano. Le caratteristiche della nuova musica italiana erano due: il gusto innato per il bel canto e il taglio realistico delle “storie” cantate e raccontate. Grande varietà e leggerezza per ciò che concerneva i temi: stare a zonzo tutto il giorno, fare un po’ i cascamorti con le belle donne, divertirsi alle feste di piazza o di corte, bighellonare con gli amici alla ricerca di vino e, infine, darsi un tono ed andare a pentirsi nel confessionale. Insomma, l’intramontabile way of life all’italiana!
La polifonia italiana assunse tre forme musicali principali: il madrigale (breve composizione poetica dal contenuto moderatamente appassionato), la ballata (composizione schietta ed elementare, ma ricca di variazioni formali e di carattere popolaresco) e la caccia (composizione che descrive scene movimentate e piene d’agitazione, connotata dall’uso massiccio dell’imitazione a canone per ricreare suoni e ambienti reali).

6. LA RIVOLUZIONE FIAMMINGA
Tra un incarico ecclesiastico e l’altro, l’avvocato e nobile fiorentino Francesco Guicciardini ebbe modo di prestare orecchio alle fantasie musicali dei compositori fiamminghi, arrivando a definirli (all’alba del ‘500) “i veri padroni della musica”. Non era un giudizio eccessivo. Essi, infatti, seppero prendere il meglio delle tradizioni musicali dell’epoca -inclusa quella della scuola italiana- e portarle ad un grado sorprendente di maturazione, gettando le basi di quella che, in seguito, diventerà l’espressività propria dell’orchestra e infarcendo di virtuosismi vocali le composizioni.
In particolare va riconosciuta ai maestri fiamminghi (operanti nel territorio che corrisponde grosso modo a Belgio, Olanda e Francia del Nord) il merito di aver dato al contrappunto dei connotati definiti: non più semplicemente nota contro nota, ma un’arte di combinare più melodie, abbinandole, affiancandole o sovrapponendole secondo regole precise che lasciavano comunque grande libertà espressiva a chi scriveva musica. Anche l’imitazione canonica cresce artisticamente grazie al contributo fiammingo.
Non è azzardato tracciare un parallelismo tra l’abilità nel lavorare con minuzie infinitesimali sia dei pittori che dei compositori fiamminghi: in entrambe gli ambiti artistici nulla viene lasciato al caso, anche il dettaglio marginale è seguito, controllato e portato a compimento, perdendo marginalità ed acquistando importanza globale.
Tornando strettamente alla musica, il testo rappresentato nei canti veniva a perdere di importanza, surclassato dall’esecuzione che finiva per vedere in azione un groviglio di voci. Il rischio incombente era quello di trasformare ogni esecuzione in un magma caotico di suoni vocali, ma la polifonia fiamminga riuscì sempre a mettere in equilibrio tecnicismo e invenzione, metodo ed emozione, calcolo e passione.
La portata innovativa fu tale che la “rivoluzione fiamminga” travolse l’intera Europa. Anche l’Italia fu costretta a riconoscere il primato fiammingo, ma i compositori nostrani -con lungimiranza e acume- anziché respingere l’invasione ne assorbirono schemi, regole e principi, arricchendoli (nel corso di decine di anni di lavoro quasi sotterraneo) con ispirazione melodica, senso dell’armonia e gusto musicale mediterraneo



7. IL SECOLO DELL’ARMONIA E DELLA CANZONETTA
Per quanto, nel ‘500, fosse imprudente andare in giro di notte disarmati e con i propri averi in vista, in questo secolo la musica registrò un’ulteriore, basilare maturazione, riconducibile alla nascita dell’armonia. Le esecuzioni musicali acquisirono un equilibro che metteva sullo stesso piano il contrappunto e la tonalità. Lo stacco dall’arte musicale del secolo precedente -e, in particolare, dal lavoro dei maestri fiamminghi- arrivò con decisione. La forma polifonica più importante che vide la luce in questo periodo fu la messa, ovvero la produzione musicale per il servizio sacro. Il compositore insofferente alle rigidità e agli schemi della messa rivolse la propria attenzione al mottetto (meno condizionato da esigenze prettamente liturgiche e, quindi, più idoneo a dare spazio all’ispirazione) oppure al madrigale, che dominò gli ambiti di musica profana per tutto il ‘500.
La polifonia cinquecentesca venne dominata da due scuole: quella romana (più vicina al sacro) e quella veneziana (più vicina al profano). Quest’ultima influenzò profondamente l’opera di Claudio Monteverdi, il compositore cremonese che tra il XV e il XVI secolo portò il madrigale al punto finale di evoluzione, grazie ad una scrittura pregna di espressività e umanità che non scadeva mai nel cerebralismo o, all’opposto, nel sentimentalismo. Monteverdi si spinse artisticamente oltre e, terminato il lavoro sul madrigale contrappuntistico, mise le mani sulla canzonetta, nata come sottoprodotto popolare ma -in questo periodo- ridefinita nei contenuti e nella forma in modo attento e rispettoso.


For Those About Rock

IL ROCK DALLE ORIGINI AD OGGI

Musicalmente la seconda metà del ‘900 è stata caratterizzata dalle evoluzioni estreme della musica classica contemporanea, dalla nascita del free jazz e soprattutto dalla diffusione, e dalla eclatante affermazione, del rock, un genere musicale nato negli Stati Uniti intorno alla metà degli anni ’50 e successivamente rimodellatosi in una miriade di generi, modalità e forme espressive.
Un cammino che, a dispetto delle critiche mosse da un nutrito numero di detrattori (convinti –a torto- che il rock sia morto e sepolto da un bel pezzo), continua a testimonianza del fatto che ancora molte sono le strade da battere ed esplorare.
Rock è sinonimo di energia, passione, spontaneità, gioia, sudore, vitalità ma anche di ribellione, sofferenza, tensione, nichilismo, violenza, autodistruzione.
Abbiamo individuato le correnti rock più rilevanti che, a partire dalle origini, hanno descritto i cambiamenti strutturalmente determinanti (Rock’n’roll, British Invasion, Pop, Garage e Psichedelia, Indie Rock, Heavy Metal) e le abbiamo descritte, aggiungendo una piccola ma sostanziosa discografia consigliata.

Buona lettura e, come scrisse Neil Young, “Rock’n’Roll Will Never Die”!

1. ROCK'N'ROLL

Che cos’è il rock and roll?
Nella sua forma più pura e basilare si tratta di canzoni di durata media, basate su tre semplici accordi, un ritmo insistente, una melodia accattivante ed un ritornello facile da ricordare, canticchiare, fischiettare.
Tutto qui? Sì.
Nella sua forma più pura e basilare si tratta di canzoni di durata media, basate su tre semplici accordi, un ritmo insistente, una melodia accattivante ed un ritornello facile da ricordare, canticchiare, fischiettare.
Tutto qui? Sì.
Sin dal suo esordio il rock’n’roll si presenta come un genere musicale impuro, che prende spunto con disinvoltura e sfacciataggine da blues, country, gospel, jazz, folk, aggiungendo altri ingredienti non strettamente musicali, come la voglia di divertirsi, di ballare e di trasgredire.
E soprattutto di prendere le distanze dal passato.
I pionieri del rock’n’roll si chiamano Bill Haley (che con la sua “(We’re gonna) Rock Around The Clock”, nel 1955, dà inizio all’era del rock), Chuck Berry, Little Richard, Jerry Lee Lewis, Buddy Holly, Bo Diddley, Gene Vincent e, soprattutto, Elvis “The King”Presley . Le invenzioni musicali degli artisti sopra citati (la lista, naturalmente, è incompleta) hanno fatto scuola e sono state di riferimento per tutte le generazioni successive, che hanno eretto sovrastrutture armoniche e melodiche via via più sofisticate, complesse o -semplicemente- imprevedibili, dando vita a miriadi di correnti espressive, dal beat alla psichedelia, dal glam all’hard rock, dal punk all’indie rock. In Europa, nei favolosi anni ‘60, gruppi come Beatles, Rolling Stones, Kinks e Small Faces, ovvero gli alfieri della “british invasion”, arricchirono il rock’n’roll con sviluppi melodici raffinati, arrangiamenti orchestrali, testi di spessore e operarono i primi, riusciti tentativi di contaminazione musicale. Dagli Stati Uniti arrivò la risposta, acida e impulsiva, di Velvet Underground, Sonics, Stooges, Doors e Grateful Dead, che aprirono le porte alla sperimentazione, alle dissonanze, allo scandalo, all’innovazione, alla ricerca “dal vivo” (il concerto non era solo il momento dell’esecuzione di una serie di canzoni, ma diventava il luogo in cui creare qualcosa di nuovo ed inedito).
Il rock’n’roll nacque come forma di reazione spontanea alla canzone melodica tradizionale americana e dava voce ai desideri, alle pulsioni, agli umori di una fascia di età che in precedenza non aveva mai brillato di luce propria: l’adolescenza.

IL ROCK’N’ROLL IN SEI ALBUM:
Elvis Presley, “Elvis Presley” (RCA, 1956)
Buddy Holly, “The “Chirping” Crickets” (MCA, 1957)
Little Richard, “Here’s Little Richard” (Specialty, 1957)
Chuck Berry, “Chuck Berry Is on Top” (Chess, 1959)
Eddie Cochran, “Eddie Cochran” (Liberty, 1960)
Jerry Lee Lewis, “Jerry Lee’s Greatest” (Rhino, 1961)

2. BRITISH INVASION
Intorno alla metà degli anni ‘60 gli artisti rock’n’roll statunitensi si trovarono a dover fronteggiare un attacco senza precedenti sferrato dall’Europa, e in particolar modo dalla Gran Bretagna. Il primo gruppo a mietere successi in patria e, subito dopo, anche oltreoceano furono i Beatles, che da Liverpool diffusero un nuovo modo di scrivere canzoni, di suonare e di cantare. Grazie all’intraprendenza del loro geniale manager Brian Epstein e del loro arrangiatore -e maieuta- George Martin, in seguito identificato come “il quinto Beatle”, il quartetto si impose massicciamente all’attenzione mondiale, finendo sotto tutti i riflettori sia per ragioni squisitamente artistiche, sia per ragioni estetiche: taglio di capelli insolito (a caschetto), abbigliamento trendy, atteggiamento ammiccante sul palco, senso dello humor e sfacciataggine nel corso delle interviste, tutto questo contribuì a edificare il mito dei Beatles e a lanciarli in cima a tutte le classifiche di vendita, oscurando personalità del calibro di Elvis Presley.
L’invasione britannica (così venne definita all’epoca e così è passata alla Storia) vide, in parallelo all’ascesa dei Beatles, anche quella di altre band. I Rolling Stones, che la stampa volle ostinatamente vedere come antagonisti ai Fab Four ma che in realtà seguirono un loro personale -e sofferto- percorso artistico, furono abili nel fondere il rock’n’roll, il blues e una sensibilità tutta europea per la melodia. E, per primi, ebbero il coraggio di toccare argomenti che avevano ben poco a che vedere con il divertimento: insoddisfazione, rabbia, incertezza, nichilismo, paura. La loro musica si basava su riff (o fraseggi) di chitarra secchi e diretti, le loro “cattive abitudini” contribuirono a dare un’immagine da “maledetti” che li portò al successo. Tra gli altri gruppi di grande importanza dello stesso periodo vanno doverosamente citati gli Who, che diedero voce al movimento giovanile dei Mods e che, per primi, abbinarono all’esecuzione delle canzoni (in moltissimi casi dei veri capolavori che contenevano i primi germi di hard rock) un’incontrollata, esplosiva violenza sul palco che li portava a frantumare gli strumenti, con un rito primitivo e brutale che mandava in visibilio le folle.
Tra il 1964 ed il 1966 la British Invasion dominò le classifiche inglesi ed americane, in seguito la situazione trovò un punto di equilibrio.
Nel resto dell’Europa, invece, artisti come Johnny Hallyday in Francia o Adriano Celentano in Italia, ebbero ampi riscontri che, tuttavia, non varcarono i confini nazionali.


LA BRITISH INVASION IN SEI ALBUM:

The Beatles, “A Hard Day’s Night” (Capitol, 1965)
The Rolling Stones, “Out Of Our Heads (ABKCO, 1965)
The Who, “The Who Sings My Generation” (MCA, 1965)
The Kinks, “The Kink Kontroversy” (PRT, 1965)
The Yardbirds, “Having a Rave Up” (Epic, 1965)
The Small Faces, “The Small Faces” (Deram, 1966)


3. POP
La parola “pop” è la contrazione di “popular”.
La musica popolare basata sulla canzone ha, come abbiamo visto nelle pagine precedenti,
origini molto antiche. Ma il pop, per come lo conosciamo oggi, prende forma nelle culture occidentali agli albori del XX secolo assecondando la propensione a mettere in musica tematiche legate all’amore ed ai sentimenti, accompagnate da commenti sonori romantici e di facile presa. Negli anni ‘50 l’ondata rivoluzionaria del rock’n’roll travolge ogni cosa e cambia le coordinate della musica giovanile. Ed è proprio quando il rock comincia a perdere la sua carica (e, per una serie di eventi drammatici, anche molti dei suoi esponenti) che un nuovo pop fa la sua comparsa. È un genere sicuramente meno eversivo, ma attuale nei contenuti e nelle modalità esecutive. Incorpora elementi della tradizione musicale più e meno recenti, ma si rivolge al pubblico facendo leva sulla leggerezza, sull’eleganza, sulla semplicità di ascolto. Il pop non nasce dal sudore (come il rock) ma dalla raffinatezza di pensiero. Non si basa sui concerti ma sull’attività in sala d’incisione, sulla pulizia del suono, sull’abilità di musicisti ed arrangiatori nel confezionare canzoni perfettamente evigate e definite.
Per questa ragione si avvicinano all’area pop compositori d’alta classe come Burt Bacharach, che scrive capolavori da tre minuti di durata l’uno come “The Look of Love”, “Walk On By”, “A House Is Not a Home”, “I Just Don’t Know What to Do With Myself”, “The Road To San José”. Canzoni “evergreen”, cioè intramontabili, dall’impatto immediato, orecchiabili e memorabili, apparentemente elementari ma che nascondono complessità compositive non indifferenti, arricchite da elementi di jazz, di musica sud-americana e, in epoche più recenti, vicine all’hip hop e al soul urbano.
Sempre negli Stati Uniti un piccolo sconvolgimento viene operato, nell’ambito della musica pop, dai Beach Boys di Brian Wilson. Nei loro brani splende il sole della California, echeggia la vita da spiaggia e l’inebriante emozione del surf. Musicalmente impeccabili, le canzoni dei Beach Boys hanno nelle voci il loro punto di forza, grazie ad una stupefacente orchestrazione dei cori.
E, oltre alla monumentale opera dei Beatles, anche nel repertorio di gruppi pop fondamentali come Monkees, Zombies e Turtles ci sono pietre miliari della musica leggera che, a distanza di decenni, non perdono in freschezza e in vitalità.

IL POP IN SEI ALBUM:
Burt Bacharach, “The Look Of Love: The Burt Bacharach Collection” (Rhino, 1998)
The Zombies, “The zombies (Featuring She’s Not There)” (Parrot, 1964)
The Beach Boys, “Pet Sounds” (Capitol, 1966)
The Beatles, “Revolver” (Capitol, 1966)
The Monkees, “The Monkees” (Rhino, 1966)
The Turtles, “Happy Together” (Sundazed, 1967)

4. GARAGE & PSYCHEDELIA

La reazione americana alla British Invasion venne identificata con la denominazione garage, in virtù del luogo deputato alle prove dai gruppi americani che avevano metabolizzato e stravolto la doppia lezione del passato remoto (rock’n’roll) e prossimo (pop britannico). Il suono garage era orgogliosamente e ostinatamente sporco, grezzo, aggressivo e talvolta sgraziato, quasi a voler ribadire l’integrità artistica e, quindi, a prendere le distanze dalla “bella canzoncina” confezionata in modo ineccepibile. Dalle canzoni dei gruppi garage traspariva (senza che, in realtà, nessuno facessi sforzi per nasconderla) una palese inettitudine tecnica. La maggior parte delle canzoni si basava su tre accordi, suonati con acido entusiasmo. Ma il limite prettamente tecnico divenne il punto di forza, se non il marchio di fabbrica, del garage rock, la garanzia che gli elementi più importanti erano l’ispirazione e l’urgenza di esprimersi. Lo spirito garage fu il progenitore diretto del punk, che sconvolse gli anni ’70 gettando nella disperazione fini compositori e musicisti progressive.
Il primo gruppo che incarnò lo spirito del garage furono i Kingsmen, cinque musicisti pasticcioni di Portland (Oregon) che arrivarono al successo riarrangiando in modo bislacco ed irresistibile un pezzo di Richard Berry intitolato “Louie Louie”.
Ma la band che, per prima, diede notorietà e valore artistico al garage si chiamava The Sonics.
Nello stesso periodo si muovevano, sempre sul suolo statunitense, musicisti caratterizzati da una forte propensione a recepire influenze musicali disparate, come il folk, la musica tradizionale indiana, il jazz, la sperimentazione sia elettrica che elettronica (con i rudimentali strumenti che esistevano all’epoca).
Il miscuglio di generi musicali, corroborato da un uso più o meno smodato di droghe psicotrope e allucinogeni di sintesi (LSD), prese il nome di psichedelia - in inglese psychedelia- e mostrò che le strade espressive del rock erano virtualmente infinite. I pionieri della musica psichedelica furono i Grateful Dead e i Byrds. I primi stravolsero le regole di base del rock e trasformarono pezzi di durata media in suite interminabili (di lunghezza superiore ai 30/40 minuti). I secondi - soprattutto nelle fasi iniziali della loro carriera- crearono un nuovo suono elettrico, acido e tagliente, abbinato a sapienti arrangiamenti vocali.
In un gioco inarrestabile di influenze, la psichedelia fece proseliti nella vecchia Europa, dando slancio ed ispirazione a band come Pink Floyd e Traffic.
Garage e psichedelia esercitano la loro influenza ancora oggi su un numero elevato di gruppi, soprattutto in terra scandinava.

IL GARAGE IN SEI ALBUM:
The Kingsmen, “The Kingsmen In Person” (Sundazed, 1963)
The Sonics, “Here Are The Sonics” (Norton, 1965)
Paul Revere & the Raiders, “Just Like Us!” (Columbia, 1966)
The Chocolate Watchband, “No Way Out” (Sundazed, 1967)
Fuzztones, “Lysergic Emanations” (Pink Dust, 1984)
Nomads, “Sonically Speaking” (Sonet, 1991)

LA PSICHEDELIA IN SEI ALBUM:
The Byrds,”Fifth Dimension” (Columbia, 1966)
13th Floor Elevators,”The Psychedelic Sounds Of The 13th Floor Elevators” (Collectables, 1966)
Pink Floyd,”The Piper At The Gates Of Dawn” (Capitol, 1967)
Jefferson Airplane,”Surrealistic Pillow” (RCA, 1967)
The Grateful Dead,”Live/Dead” (Warner Bros, 1969)
The Dukes Of Stratosphear,”Chips From The Chocolate Fireball” (Virgin, 1967)

5. INDIE ROCK
ll vocabolario della lingua italiana Garzanti alla voce indipendente dà la seguente definizione: che non dipende da altri, autonomo; che non è soggetto a vincoli di alcun genere.
Non c’è modo migliore per descrivere l’attitudine dei gruppi (prevalentemente, ma non solo, statunitensi) che a partire dagli anni ’80 rivendicarono un ritorno ad uno degli aspetti basilari del rock: esprimere uno stato d’animo attraverso parole e musica, senza assecondare richieste o imposizioni delle etichette discografiche né accontentare i gusti e le aspettative del pubblico.
Il fenomeno dell’indie (contrazione di “indipendent”) rock nacque da questi presupposti. I gruppi lavoravano con bassissimi budget, creavano delle proprie etichette attraverso le quali promuovere e diffondere la musica, si appoggiavano sulle riviste non ufficiali - chiamate fanzine, da “fanatic magazine”, cioè le riviste degli appassionati -, cedevano solo per quanto riguardava la distribuzione dei loro album, che affidavano alle cosiddette major, ma tenendo queste ultime distanti da qualsiasi processo creativo, decisionale o artistico.
Tutto ciò permise ai musicisti indie di esplorare nuovi territori sonori, di scrivere testi non necessariamente (o immediatamente) decifrabili, di usare i concerti per sperimentare nuove possibilità.
La scena indie partì dal sottobosco dell’alternative e dell’underground rock, ma prese quasi subito le distanze da fenomeni come il grunge (Nirvana, Pearl Jam, Alice in Chains).
Indie rock è il contrario di “commercializzazione” e anche se alcune band (come i Sonic Youth) hanno avuto parecchia fortuna, non sono mai scese a compromessi nè hanno tradito la loro filosofia di partenza.
Nella loro musica, così come in quella di Pixies, Jon Spencer Blues Explosion, Pavement o della cantautrice Ani Di Franco, fraseggi toccanti hanno trovato posto accanto ad asperità melodiche o stranezze indefinibili, suoni languidi hanno convissuto con rumori intollerabili, idee perfettamente strutturare hanno passato il testimone a composizioni frammentarie ed inconsuete.
In sostanza l’indie rock è l’espressione di una sensibilità musicale particolare, sconcertante, priva di visceralità o potenza, ma densa di introspezione e ricerca.
Negli anni ’90 l’indie rock si è disperso in molte nuove direzioni, che hanno preso nomi come indie pop, dream pop, noise-pop, lo-fi, post-rock, sadcore, emo.
Conservando lo spirito puro e intransigente del rock indipendente.

L’INDIE ROCK IN SEI ALBUM:
Sonic Youth, “Daydream Nation” (DGC, 1988)
Pixies, “Surfer Rosa” (4AD/Elektra, 1989)
Ani Di Franco, “Ani Di Franco” (Righteous Babe, 1989)
Pavement, “Slanted & Enchanted” (Matador, 1992)
Superchunk, “No Pocky For Kitty” (Merge, 1991)
Jon Spencer Blues Explosion, “Extra Width” (Matador, 1993)

6. HEAVY METAL
Chissà se Bill Haley, Elvis Presley o Gene Vincent avrebbero mai immaginato, nei lontani anni ’50, che il “loro” rock’n’roll si sarebbe trasformato al punto tale da diventare l’assordante, aggressivo, dirompente genere musicale che il folle critico musicale americano Lester Bangs chiamò Heavy Metal?
Con questa denominazione si intende un rock tonante e selvaggio, spesso assordante se non –in prima istanza- inascoltabile, che ha portato alle estreme conseguenze le invenzioni dell’hard rock coniato da band prevalentemente britanniche tra gli anni ’60 e ’70.
L’heavy metal è, per definizione, un genere poco incline al compromesso, un commento musicale che esprime ribellione, rivolta e sordo rancore nei confronti degli aspetti meno tollerabili e sostenibili della società. Ma può anche prendere direzioni poco raccomandabili, divenendo un viaggio oscuro ed allucinante negli abissi della psiche umana, nei torbidi antri in cui si agitano le pulsioni inconfessate dell’individuo.
Volendo tracciare il percorso che ha portato alla genesi dell’heavy metal dobbiamo partire dal lavoro svolto negli anni ’60 da band come Who, Cream, Kinks e Jeff Beck Group, che liberarono in modo inedito la carica eversiva e distruttiva del rock-blues, creando violente distorsioni sonore e fornendo ispirazione ad una nuova generazione di gruppi come Deep Purple, Led Zeppelin e Black Sabbath.
Questi ultimi, in particolare, abbinarono ad una musica sempre più aspra e roboante delle tematiche verbali ossessive basate sulla passione per l’occulto, per le droghe, per la morte.
A questo punto, anche in virtù della teatralizzazione del genere musicale, le direzioni possibili si erano moltiplicate. La lezione dei sopra citati venne recepita da gruppi più e meno estremi, come AC/DC, Van Halen, Judas Priest e Motorhead. Una nuova, fondamentale evoluzione nel mondo dell’heavy metal venne operata dagli inglesi Iron Maiden, che accellerarono i ritmi fino a renderli frenetici e turbinosi.
Gli anni ’80 videro l’ascesa di nuove, incredibili formazioni come i Metallica e i Sepultura, che re-inventarono il modo di suonare la chitarra ritmica e di impostare la voce.
In anni recenti il metal ha dimostrato di essere ancora vivo e vegeto, nonché ampiamente disponibile alla contaminazione, cioè a ricevere suggestioni da altri mondi musicali: estremamente importanti i risultati raggiunti da Il Nio (Latin metal), Opeth (Black Metal Sinfonico), Children Of Bodom (Death Metal), Soulfly (Ethnic Metal), Slipknot (Alternative Metal).

L’HEAVY METAL IN SEI ALBUM:
Led Zeppelin, “Led Zeppelin II” (Atlantic, 1969)
Black Sabbath, “Paranoid” (Warner Bros, 1971)
Van Halen, “Van Halen” (Warner Bros, 1978)
Metallica, “And Justice For All” (Elektra, 1988)
Soulfly, “Dark Ages” (Roadrunner, 2005)
Slipknot, “9.0:Live” (Roadrunner, 2005)

I MILLE VOLTI DEL ROCK
Le incarnazioni del rock che abbiamo esplorato sono solo alcune.
Ne esistono molte di più, che prendono il nome di Acid Rock, Euro Rock, Frat Rock, Math Rock, Pub Rock, Folk Rock, Glam Rock, Boogie Rock, Lovers Rock, Rap Rock, Country Rock, Album Rock, Jesus Rock, Kraut Rock, Goth Rock, Jazz Rock, Soft Rock, Arena Rock, Blues Rock, Noise Rock, Stoner, Roots, Retro Rock, Southern Rock, Space Rock, Alternative Rock, Christian Rock, Progressive Rock, Art Rock, Comedy Rock, Aussie Rock, Celtic Rock, ...

 

COVER ILLUSTRI...

di Alessandro Zanoni


...chi e'

Vita e fatti di Marco Parente

Marco Parente nasce a Napoli nel 1969 ma vive a Firenze fin dall'inizio degli anni '90. Il suo esordio solistico risale al 1997, quando per la collana "Taccuini" del C.P.I esce Eppur non basta.
Un disco decisamente di ricerca, pur rimanendo nell'ambito della "canzone", che ha riscosso numerosi consensi di critica per l'originalità delle composizioni e degli arrangiamenti. Carmen Consoli, affascinata dal progetto fin dall'inizio, duetta con Marco nel brano Oio.

Il suo nome non era tuttavia sconosciuto ai più attenti osservatori del panorama musicale italiano. L'artista, dopo alcune militanze in gruppi locali (Parente si era fatto notare per la collaborazione con Andrea Chimenti ne L'albero pazzo, oltre che come membro degli Otto'p'notri), aveva infatti a più riprese lavorato come turnista con i C.S.I. partecipando in veste di percussionista negli album Ko de mondo (1994) e Linea gotica (1996).

Mentre Marco inizia a registrare il suo secondo album, decide di partecipare al progetto L'isola di Wyatt dedicato al batterista dei Soft Machine Robert Wyatt dal Consorzio Produttori Indipendenti. A fianco dei La Crus interpreta Gharbzadegi e partecipa ad una serie di date dal vivo in cui sono coinvolti membri dei CSI, Manuel Agnelli degli Afterhours, Cristina Donà, Enrico Greppi e Finaz della Bandabardò.
Nel settembre 1998, il primo disco viene ristampato in un edizione speciale, con una nuova copertina e due brani in più: Oggi si ride e Gharbzadegi.

Il secondo album viene pubblicato nel novembre 2000, si intitola Testa, dì cuore. Undici episodi come undici storie di passione, disagio, sentimenti oscuri, intriganti malinconie in un album di Rock da camera che somma intuito e ragione. In Testa, dì cuore la presenza femminile è quella di Cristina Donà, magnifica in Senza voltarsi, a testimoniare un rapporto di reciproca stima che ha visto a sua volta Parente come ospite nell'album Nidodella cantautrice.

Nel 1998 inizia la sua collaborazione con la City Lights Italia, presentando in anteprima Testa, dì cuore alla Stazione Leopolda di Firenze. Nel 2000 partecipa al tour PullMan My Daisy con Ferlinghetti, Ed Sanders, Anne Waldaman, John Giorno, Alejandro Jodorowsky e molti altri poeti e musicisti esponenti della "beat generation".

Sempre con City Lights Italia, nel 2001 partecipa al Festival Fuck Art, Let's Dance accompagnando i readings di L. Ferlinghetti (a Firenze in Piazza della Signoria e a Genova, Teatro della Corte) e nel maggio 2001, all'interno della rassegna "Delle cose nascoste fin dalla fondazione del mondo" (Fiesole / Firenze; gennaio / luglio 2001) presenta in anteprima il primo studio realizzato per l'allestimento dello spettacolo Paradiso, Inferno, Piano Terra all'Anfiteatro romano di Fiesole, in occasione del quale City Lights Italia pubblica la raccolta degli ultimi suoi testi Work in progress/Work in Regress.

Nell'inverno del 2001 apre insieme a Paolo Benvegnù alcuni concerti di Afterhours. Sempre in questo periodo inizia la collaborazione con Manuel Agnelli. Ospite del Premio Ciampi 2001 si esibisce in una vibrante performance assieme allo stesso Manuel Agnelli e ancora una volta, a fianco di Paolo Benvegnù.

Nel febbraio del 2002 Patty Pravo interpreta e inserisce nel suo album Radiostationuna sua canzone (Farfalla Pensante), tutto grazie e sotto la supervisione di Manuel Agnelli.

Il 27 settembre 2002 è stato pubblicato su etichetta Mescal (distribuzione Sony) il nuovo disco di Marco Parente prodotto da Manuel Agnelli, intitolato Trasparente e preceduto dal singolo Lamiarivoluzione, distribuito nei negozi il 21 giugno 2002.

Il 4 ottobre 2002 ha ricevuto il Premio Grinzane Cavour per la poesia e i testi musicali insieme a Manuel Agnelli e Cristina Donà con i quali si è esibito durante la serata in una performance acustica indimenticabile al Teatro Politeama di Saluzzo (CN).

A novembre, in concomitanza con la pubblicazione da parte della City Lights di Firenze del Libro trasparente, è uscito anche nei negozi il secondo singolo intitolato Davvero trasparente. Sempre a novembre prendono vita, grazie alla regia di Graziano Staino, due video Adam ha salvato Molly e Davvero trasparente.

Il 30 Maggio 2003 è la data di uscita del terzo singolo estratto dall'album Trasparente intitolato Pillole Buone. Questo brano, della durata di circa 15 minuti, è nato amalgamando e remixando 1 minuto circa per gni pezzo incluso nell'album Trasparente, di e da un'idea di Lorenzo Brusci. Il cds contiene, oltre alla traccia Pillole Buone che ne da il nome, tre brani, sempre remixati: Proiettili Buoni (b-side inclusa nel primo singolo Lamiarivoluzione e remixata da Lorenzo Brusci), W il mondo (remixato sempre da Lorenzo Brusci) e Anima gemella (remixata da Stefano Facchielli degli Almamegretta).

Mercoledì 21 maggio 2003, Marco Parente con i suoi musicisti e la Millenium Bugs' Orchestra ha pennellato di magia una serata all'interno dell'ormai mitica Stazione Leopolda a Firenze. La performance è stata registrata e fa parte di un album/progetto live uscito il 16 gennaio 2004, intitolato L'attuale jungla e preceduto dalla pubblicazione del singolo Inseguimento geniale (01-12-2003). E poi ...

NEVE RIDENS 1 (SETTEMBRE 2005)

NEVE RIDENS 2 (FEBBRAIO 2006)

"Sapevo che sarebbe stato l'anno della neve, me lo sentivo... e me la son goduta tantissimo: sono stato a far pallate a S. Spirito per due ore"...

www.falsomovimento.it
www.marcoparente.it (dal 31 marzo 2006)

 

SIAMO CHIMICA CHE CAMMINA

Intervista a Marco Parente

Marco Parente è uno dei compositori più sorprendenti ed innovativi del panorama nazionale.
Il suo approccio al formato canzone non si adegua mai ad una scrittura standard, ma si spinge nei territori –a volte impervi- della ricerca. Ognuno dei suoi brani è come un album in miniatura. Abbiamo parlato con Marco del suo lavoro e del modo di affrontarlo.

Quando hai scoperto la musica?

“Distinguiamo tra scoperta consapevole e inconsapevole. Sin da bambino ho avuto una predisposizione
per tutto ciò che era riconducibile al suono. In casa la musica c’è sempre stata, soprattutto
per volere di mia madre, grande appassionata di rock’n’roll e fan di Elvis Presley. Mio padre invece, artista e pittore, mi fece respirare l’arte. Tornando alla musica, ricordo che il primo regalo musicale che ricevemmo io e mio ratello furono due musicassette. Una di Elvis Presley e una degli Intillimani. Il rock e la musica etnica, due aspetti che ritrovo nella musica che faccio, basata su un approccio che mette in comunicazione ed in contrasto elementi meravigliosi ed apparentemente inconciliabili. E’ la scintilla di schizofrenia che mi porto ancora appresso.”

Che cos’è per te la canzone?

“Da un punto di vista teorico è riuscire a condensare nel minor tempo possibile un flusso emotivo. A volte si tratta di argomenti ben definiti, altre volte, invece, si tratta di libere sensazioni, non riconducibili ad un pensiero preciso e definito. La canzone consta di alcuni elementi fondamentali, cioè melodia, parole, arrangiamento, ritmo. Ed aggiungerei anche brevità, anche se non è detto che l’artista debba per forza sottostare all’obbligo di fare canzoni da tre minuti. Io amo dilatare le canzoni e farle diventare molto unghe. Ma amo anche scrivere pezzi sintetici ed essenziali.”

Nel comporre usi un metodo per comunicare le tue sensazioni?

“No, un metodo fisso non c’è. Molto dipende dalle persone con cui sto lavorando e dal tipo di materiale di cui dispongo in un certo momento. Quando decido di condividere i miei pezzi mi pongo nella condizione necessaria e sufficiente per portare alla luce le mie intenzioni. Se ho di fronte un numero ristretto di musicisti le sinergie nascono più velocemente. Avere davanti una grande orchestra, invece, rallenta i tempi e moltiplica le difficoltà. Tante teste, tante umanità, tante sovrastrutture...Come musicista mi interessa condividere ciò che faccio, il lavoro che realizzo da solo è incompleto, ha bisogno dell’incontro, dell’incastro con l’esterno. E non intendo solo con altri musicisti, ma anche -per fare un esempio- con il fonico. Il mio ultimo disco è il distillato delle collaborazioni di questi ultimi anni. Il dialogo è stato alla pari in dall’inizio. In realtà abbiamo parlato poco e lavorato molto sin da subito, ognuno ci ha messo del suo.”

A proposito del tuo ultimo album, come hai impostato il lavoro?

“Ho portato in studio le canzoni che avevo scritto negli ultimi due anni e ho lasciato che ognuno dei musicisti dicesse la sua. Ho agito con umiltà, dando spazio alla spontaneità degli altri. Non ho dato indicazioni a priori. Va detto che sapevo bene con chi stavo lavorando, non era un azzardo l 100%. Ma anche durante le fasi di lavorazione sono stato a lungo in silenzio. A volte il gruppo prendeva strade che non convincevano completamente o che non mi convincevano affatto. Ma non intervenivo, davo ad ogni idea il tempo di trovare la propria collocazione oppure di uscire di scena.”

Una specie di disciplina all’ascolto...

“Uno sforzo che alla fine è stato ampiamente ripagato. E io ho capito che le mie perplessità erano dovute al fatto che dovevo abituarmi ad una strada che non conoscevo. Che la mancanza di convinzione per alcune delle idee, da parte mia, era dovuta alla mancanza di comprensione.”

Prima hai parlato di grandi orchestre. Cosa ricordi dell’esperienza de “L’attuale jungla” e del lavoro con la Millenium Bugs Orchestra?

“Prima ancora di essere un disco era un progetto, l’idea di “classicizzare” le mie canzoni, dando loro il suono swing della big band. C’erano tante interfacce, c’era un direttore che prendeva le decisioni, io non mettevo bocca: la sua figura era “imponente”. Tra i musicisti c’erano elementi del mio gruppo. Una doppia ritmica, quindi, e in più i fiati. L’ambizione del progetto e i tempi molto ristretti hanno reso tutto molto faticoso. A volte nessuno capiva più dove si stava andando, ma alla fine il risultato mi è piaciuto. Ci sono state numerose tensioni, anche piacevoli. Ne sono venuto fuori affaticato e desideroso di fare. Magari di fare qualcosa di diverso, anche solo per reazione...”

In questi anni hai mai avuto momenti di crisi creativa o di crisi con il mondo esterno?

“Crisi creativa no, mai. Con il mondo esterno...beh’, a volte non ci siamo trovati. A volte, ma non sempre. Scrivere canzoni è un’ottima arma. E’ uno sfogo ed è anche una difesa. Quando uno viene aggredito dalle contraddizioni e dalle assurdità della vita, il tornare dentro di sè, nella propria intimità di pensiero o domestica, permette di tirare fuori ciò che fa stare male, di non tenere tutto dentro.”

Nelle tue canzoni non c’è mai un singolo umore. E’ come se tu riuscissi a racchiudere in un solo
brano tutti gli umori di un’intera giornata...

“Si, è vero. Come minimo gli umori di un’intera giornata. Ogni giorno passiamo attraverso tanti stati d’animo. Dipende da come ci svegliamo, da come ci muoviamo. Siamo chimica che cammina, e questa chimica si muove dentro di noi. E’ dura da decifrare ma nonostante la complessità riverso tutto questo modo di essere e di vivere nel mio lavoro.”


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