4 Marzo 2006 - Aula Magna Istituto Tecnico Commerciale -Poppi: VIAGGIO NELLA MUSICA, Un tour di incontri in compagnia di suoni, immagini, notizie e aneddoti guidati da musicisti, interpreti, produttori, musicologi, addetti ai lavori per comprendere il mondo della musica, svelarne i segreti, esplorarne i backstagea cura di Maurizio Principato; Il Concerto le esibizioni dal vivo nella tradizione classica, nel jazz, nella rock: su e giù da mille palchi, analizzando anche gli aspetti legati alle tecniche di registrazione della musica "live", sono intervenuti Enrico Greppi (Erriquez della Bandabardò), Pia Tuccitto (cantautrice), Leonardo Rossi (compositore e direttore d'orchestra), Andrea Ian Galli (giornalista e critico musicale), Alessandro Zanoni (designer e critico musicale), ha condotto Maurizio Principato (giornalista e musicologo).

 

 

E il viaggio continua...sabato 4 marzo 2006

con...

MAURIZIO PRINCIPATO

ERRIQUEZ DELLA BANDABARDO'

PIA TUCCITTO

LEONARDO ROSSI

ANDREA IAN GALLI

ALESSANDRO ZANONI

E CON VOI...

PIA

“Una volta ho sognato di volare e non volevo atterrare.Quando mi sono svegliata ho cercato di raccontarlo ma non ci sono riuscita. E la stessa cosa succede se mi si chiede di spiegare le mie canzoni…Impossibile. Posso dire soltanto che sono storie che mi assomigliano, che hanno la mia stessa ironia e che in più di un’occasione sono servite a far fidanzare le mie amiche e qualche volta pure a sfidanzarle…!

Risponde così Pia a chi le chiede di raccontare la sua musica.

Toscana anzi casentinese precisamente Bibbienese di origine (diplomata in Ragioneria a Poppi), ma bolognese d’adozione, Pia è la nuova voce del rock melodico italiano, un talento unico nel suo genere che non è passato inosservato agli occhi e alle orecchie di VASCO ROSSI.
Il numero uno del rock italiano ha infatti voluto incidere nel suo ultimo disco, “Buoni o Cattivi”, un brano di Pia, dal titolo “E…”.

La storia comincia nel 1993 quando Pia, all’epoca studentessa al DAMS (dove si laurea l’anno dopo con una tesi dal titolo profetico “Il rock al femminile”) ha già iniziato a comporre le sue prime canzoni.
Ed è proprio con una di queste, “Trasloco”, ispirata da un reale e improvviso cambio di appartamento, che tenta la strada del Festival per voci nuove di Castrocaro.
A sorpresa si qualifica per la finalissima, in diretta su RAI UNO, e in quell’occasione viene notata da Gaetano Curreri, leader degli Stadio che da quel momento la prende sotto la sua ala protettrice e la introduce nel clan di Vasco Rossi.
Proprio grazie a Vasco, nel 2000, avviene l’incontro con un altro mostro sacro della musica leggera italiana, PATTY PRAVO che dice di lei: “Talmente brava, padrona delle sue canzoni che non ho avuto altra scelta…..’copiarla’ L’ ex ragazza del Piper non scherza e per il suo album “Una donna da sognare” che esce nel maggio di quello stesso anno, sceglie ben sette brani scritti da questa giovane cantautrice, capace di fondere melodie morbide e intriganti con l’energia di una vera rockstar.
La collaborazione con Patty Pravo segna per Pia un decisivo trampolino di lancio che la porta a partecipare a numerosi programmi televisivi.
Sulla scia di questi successi nel giugno 2000 Pia si esibisce sul palco dell’ ”Heineken Jammin’ Festival” di Imola e al “Rock R’evolution” di Zocca
Nel frattempo continua la collaborazione con Vasco che, nell’estate del 2001, la vuole come supporter ad alcune date del suo tour “Stupido Hotel”

Il 2003 è l’anno del debutto discografico di Pia che incide “Ciao Amore”, un singolo
prodotto da Vasco Rossi per la sua etichetta “Bollicine”.
Contemporaneamente all’uscita di “Ciao Amore” Pia firma “Buon Compleanno” e “Voglio una ninna nanna”, due brani dell’album di IRENE GRANDI “Prima di partire”, di cui proprio “Buon compleanno” sarà uno dei singoli di maggiore successo.
Ma il 2003 riserva ancora sorprese per la carriera di Pia: “Quella vispa di Teresa”, il suo secondo singolo, accompagnato da un videoclip con la partecipazione straordinaria di Platinette, resta per sei settimane nella hit parade redatta da “Musica e dischi”.
Arriviamo così al 2004 quando Vasco “ruba” a Pia la canzone “E…”, definendola “veramente bellissima, piuttosto eccitante da ascoltare”. Ed “E…” sarà uno dei brani più programmati dalle radio dall’album “Buoni o cattivi”, in testa per quasi un anno a tutte le classifiche.
Di lei Vasco dice: “E’ un vero e proprio genio a scrivere canzoni. Una cantautrice da seguire assolutamente, un talento eccezionale”. E a proposito di “E…” aggiunge: “Tengo in modo particolare a questo brano, credo che sia una vera e propria carezza…” Il feeling tra Vasco e Pia diventa ancora più profondo nell’estate 2004 quando, nella trionfale tournée che segue l’uscita di “Buoni o cattivi”, Pia apre i suoi concerti nelle date di San Siro, Reggio Emilia e Padova.
Intanto Pia non smette di scrivere e l’occasione per una nuova avventura arriva da “Il Giornale di Sicilia” che, in concomitanza con la promozione del Palermo in serie A, le chiede di comporre l’inno per i tifosi della squadra. Il brano s’intitola “Palermo facci sognare” e dopo essere stato distribuito in allegato al quotidiano l’inverno scorso, dal 20 febbraio 2005 è la sigla ufficiale di presentazione della squadra al programma televisivo “Quelli che il calcio”.
Finalmente il 17 Giugno 2005 esce “Un Segreto Che”. Album d’esordio di Pia, esce contemporaneamente in Italia e in tutto il Nord Europa, con un’unica differenza tra il mercato italiano e quello straniero: da noi l’album contiene nove brani che diventano dieci per l’estero, con l’aggiunta di una versione dance di “Ciao amore” primo singolo di Pia, uscito nel 2002.

Concepito da Pia sotto l’egida di Vasco Rossi, “Un segreto che” esce per l’etichetta Bollicine/EMI con la produzione artistica di Frank Nemola, già programmatore di Vasco. Il cantautore modenese ha “prestato” a Pia anche alcuni suoi musicisti storici: Claudio Golinelli al basso e Stef Burns alla chitarra, oltre a Clara Moroni per i cori, presenti nei brani: “Quella vispa di Teresa” e “Se chiudi gli occhi”. Il resto del disco è stato suonato invece dalla band che accompagna abitualmente Pia nelle esibizioni dal vivo: Stefano Peretto alla batteria, Giorgio Santisi al basso, Luca Longhini alla chitarra e Renato Droghetti alle tastiere.
L’artista ha aperto alcune date del tour di Vasco Rossi del 2005.
7 Giugno – Torino
10 Giugno – Imola
25 Giugno – Palermo
5 Luglio – Firenze
9 Luglio – Udine
Durante l’estate 2005 Pia è in promozione con l’album che la vede partecipare oltre che in numerosissime interviste Radio anche nei maggiori Radio Tour come ospite.
Ne citiamo solo alcuni:
GIROFESTIVAL 2005 Rai3
RADIO KISS KISS NETWORK
CICCIO RICCIO
RADIO 3i Mendrisio - Svizzera
CD LIVE 2005

Video intervista per il programma EASY DRIVER, RAI 1

Dal 4 novembre 2005 è in rotazione in tutte le radio italiane il secondo singolo di Pia “SE CHIUDI GLI OCCHI”.

www.piatuccitto.net


Enrico Greppi alias ERRIQUEZ

Voce, chitarra acustica ritmica della BANDABARDO'

Io di profilo mi sono visto solo in foto o in video, non sono il tipo da doppio specchio. Ma mi ricordo di aver notato alcuni segni fondamentali: un naso premiato da un tuffo in piscina con poca acqua, un’evidente peluria sul mento pronta ad essere riportata in testa (qualora la calvizie decidesse di rompere ulteriormente le palle), una luce negli occhi di chi ha un figlio strepitoso. Un profilo non proprio gioviale, assorto in musiche e parole che vengono dalla mia famiglia di musicisti classici, professionisti o per amore, da un’infanzia di conservatorio e violino, per poi essere travolto dal basso e quindi da Sua Santità La Chitarra! Impregnato di Battisti e De Andrè incontro poi la Banda dei Bardozzi con cui ce le scriviamo e ce le cantiamo. Quando non capite bene le parole è perchè il mio ventennio passato nei paesi francofoni ritorna nel cuore. Inoltre ho lavorato con Silvestri (Cohiba), conosciuto Manu Chao, e vi voglio bene…

 

www.bandabardo.it


La seconda tappa di “Viaggio nella musica” ha avuto come oggetto 'Il Concerto'. Nel corso di quest'incontro sono intervenuti il cantante-leader della Bandabardò Enrico Greppi chiamato Erriquez, la cantautrice Pia Tuccitto, il compositore e direttore d'orchestra Leonardo Rossi, il giornalista e critico musicale Andrea Ian Galli, l'esperto di musica e designer Alessandro Zanoni. Ognuno di loro ha contribuito, parlando sulla base delle proprie competenze e della propria esperienza, a rendere l'esplorazione del concerto ancora più approfondita ed efficace, mentre Maurizio Principato ha proseguito in sintesi, ma come al solito in modo molto piacevole ed interessante, il percorso storico dalla musica barocca al concerto sinfonico. Il tutto è stato sapientemente riassunto nel secondo dei tre volumetti che come già detto costituiscono il sussidio cartaceo del nostro "Viaggio nella musica", distribuiti ai presenti in occasione di ogni singolo incontro. Qui di seguito riportiamo i testi della seconda parte.

Una storia della musica in breve - seconda parte

Il nostro viaggio nella musica prosegue, nello spazio e nel tempo. Il punto di partenza di questo secondo percorso è il Rinascimento, periodo artisticamente fertile e vitale, nel quale nasce l'opera. Sotto lo slancio rinascimentale le esecuzioni musicali drammatiche si avvicinano progressivamente ai gusti e alle esigenze popolari, dando forma un po' alla volta a quella che, dopo secoli di trasformazioni, diventerà la musica leggera. La forma concerto, inoltre, acquista struttura e forme precise, rivelandosi come uno dei principali veicoli per la diffusione e la comprensione della musica.
A cavallo tra il XVII e il XIX secolo nascono compositori ed esecutori influenti, innovativi o audaci, che con il loro inestinguibile talento cambieranno per sempre il corso della musica: Vivaldi, Bach, Mozart, Beethoven e Schubert sono quelli che prederemo in esame.
“Viaggio nella musica” è prima di tutto un viaggio nel tempo: giunti ai primi decenni del XIX secolo salteremo agli anni sessanta (del XX secolo), per fare conoscenza con band e star che hanno cambiato il modo di fare musica dal vivo.

1. Il trionfo dell'intervallo
Il '500 segna storicamente la fine del Medioevo e l'avvento del Rinascimento. Da un punto di vista artistico questa rinascita coincide naturalmente con la necessità di fruire di nuove forme espressive, che rivelino fedelmente l'anima dell'epoca. Il primo passo viene fatto riesumando o imitando le antiche commedie classiche e attualizzandone sia la struttura che i contenuti. Dopo secoli culturalmente bui ed oscuri, l'intera società (anche le frange meno abbienti) sente il desiderio di provare emozioni grazie alla musica ed alle rappresentazioni teatrali. Per questa ragione si assiste sia ad una progressiva semplificazione dei temi e degli argomenti, che all'ingresso di nuovi elementi di intrattenimento che si innestano all’interno di realtà artistiche esistenti. Drammi e rappresentazioni sacre, infatti, vengono interrotte da intervalli che prendono il nome di "intermedi" e che hanno lo scopo di distrarre per qualche minuto gli spettatori. E accade ciò che nessuno poteva immaginare: gli intermedi riscuotono un successo tale che, spettacolo dopo spettacolo, vedono aumentare la loro durata e si arricchiscono di elementi scenografici. Questi momenti musicali assicurano al pubblico un divertimento inedito, fino a caratterizzarsi come uno spettacolo nello spettacolo e, di lì a poco, diventare la ragione di interesse principale.

2. Tutti all'Opera
Ed è con l'affermazione dei sopra citati intermedi che prende avvio quella che, in seguito, viene identificata come opera e che nasce dal lavoro "a staffetta" di numerose scuole attive in Italia.
Nel periodo che va dalla fine del '500 ai primi decenni del '600 l'opera fiorentina concentra la propria attenzione sulla parola, dandole un grande risalto sonoro e rendendola maggiormente fruibile (in virtù di una scelta di vocaboli via via più comuni e, di conseguenza, comprensibili ad un pubblico più vasto). L'opera romana si caratterizza, invece, per l'inserimento di elementi comici, che consentono l'emancipazione da forme retoriche seriose e piuttosto sterili. La nascente opera veneziana prende il meglio del lavoro svolto dalle scuole fiorentina e romana, per innalzarlo ai massimi livelli di qualità: le linee armoniche acquistano una straordinaria espressività, le orchestrazioni vengono pervase da affascinanti coloriture, le interpretazioni -vocali e strumentali- si arricchiscono di singolari sviluppi psicologici e passionali. L'opera napoletana pone maggiore attenzione sugli aspetti sentimentali dei contenuti verbali, sostenuti da commenti musicali ricercati, ora commoventi ora vigorosi.
In parallelo all'evoluzione repentina dell'opera è da registrare la nascita di altre forme musicali, dal successo (e dal seguito) nettamente inferiore. La prima -più austera e priva di elementi di contorno- è l'oratorio. Naturale evoluzione della lauda (o laude), consiste in una forma di spettacolo sacro in cui mancano scene ed azione. Il centro della rappresentazione è costituito dalla narrazione cantata di un fatto biblico, sostenuta da uno scarno commento musicale. Altra forma musicale, meno noiosa ma ugualmente limitata da un punto di vista artistico, è la cantata, sacra o profana, che nasce per deliziare quegli ambienti salottieri frequentati da una audience superficialotta, che ama più le facili emozioni estetizzanti che non i reali contenuti.

3. Campioni del mondo!
L’aspetto fondamentale dell’evoluzione musicale del ‘600 è che l’opera perde progressivamente le caratteristiche di prodotto destinato all’entertainment dell’aristocrazia, avvicinandosi alle esigenze semplici e genuine del popolo. Nel XVII secolo l’opera italiana ha una posizione di egemonia indiscussa: gli artisti nostrani sono richiestissimi ovunque, basta essere (o dire di essere) italiani e tutte le porte si spalancano, dalle corti alle sale da concerto. Le ragioni sono tre. In primo luogo l’opera italiana (fiorentina, romana, veneziana o napoletana che sia) aderisce perfettamente al proprio tempo e si propone non più come festa cortigiana ma come vero e proprio spettacolo destinato ad un pubblico, ovvero ad un gruppo di persone che non vive a corte ma in una realtà sociale aperta (borgo, paese o città). In secondo luogo l’opera italiana accresce di pari passo l’importanza della parola cantata e del relativo accompagnamento musicale, segnando una crescita artistica che nessun altro paese riesce a mettere in atto. Infine l’opera italiana suscita sempre sentimenti antitetici, da una parte grande entusiasmo e dall’altra grande invidia, che la pongono al centro dell’attenzione, con casi di imitazione mal riuscita e conseguente, ulteriore trionfo del modello originale.
In Germania in questo periodo, anche grazie all’intervento diretto di Lutero (al quale preme che il maggior numero di persone abbia accesso al mondo della musica), abbiamo la fioritura del Lied, forma cantata che prende spunto dall’antico lavoro dei Minnesänger. In Francia la canzone polifonica scivola verso forme sempre più drammatiche, arricchendo spettacoli in cui l’elemento di maggior interesse è tuttavia la danza.

4. In concerto
Fino alla metà del ‘600 il concerto non era altro che un momento di esecuzione musicale in cui un gruppo di musicisti (composto da cantanti e strumentisti) si esibiva senza una precisa definizione strutturale. È dal 1680 che cominciano a delinearsi con chiarezza i tratti del concerto barocco, ad opera di compositori come Stradella, Corelli e Torelli. Proprio grazie al lavoro di quest’ultimo si raggiunge una maggiore precisione della forma e dello stile del concerto, schematizzabile in tre movimenti: allegro, adagio, allegro. Il salto di qualità determinante avviene ad opera di uno delle figure più importanti della storia della musica, Antonio Vivaldi.

5. Antonio Vivaldi, il prete rosso
Ci sono composizioni che quasi tutti riconoscono sin dalle prime battute. La primavera, tratta dalle Quattro stagioni, è una di queste. Il suo autore è uno dei violinisti e compositori italiani più importanti di sempre: Antonio Vivaldi. Nato a Venezia il 4 marzo 1678, durante l’infanzia è allievo del padre Giovan Battista e del maestro di cappella Legrenzi. Riceve gli ordini minori fra il 1693 e il 1696, e viene ordinato prete nel 1703. In virtù della sua folta capigliatura fulva verrà in seguito soprannominato prete rosso (e non, ovviamente, per ragioni squisitamente politiche). Rinuncerà molto presto a celebrare messa per una forma di asma che gli procura, stando alle sue parole, “ristrettezza di petto”. I problemi di salute non gli impediscono di insegnare: tra il 1703 e il 1740 è maestro di violino e composizione, maestro di coro e maestro di concerti presso il Seminario musicale dell’Ospedale della Pietà, una delle quattro scuole veneziane di musica frequentate da ragazze orfane o abbandonate. Il temperamento virile e deciso, supportato da un carattere misterioso e magnetico, rende il bell’Antonio una specie di rockstar agli occhi delle sue numerose allieve che, spesso, lo adescano (con esiti favorevoli per entrambi). Ma la professione dell’insegnamento, per quanto esercitata con grande serietà, è marginale rispetto ad altri due aspetti: l’attività di virtuoso del violino (che lo porta a suonare anche fuori da Venezia in moltissime occasioni) e quella di compositore di melodrammi. L’ulteriore, e non trascurabile, abilità di Vivaldi sta nel saper essere un buon imprenditore di se stesso, permettendogli di trarre notevoli profitti dal mestiere di esecutore e di autore. Muore a Vienna il 28 luglio del 1741. In seguito il musicista e compositore veneziano viene ingiustamente dimenticato e tornerà ad essere riconsiderato solo dopo il 1945, quando la ri-pubblicazione dei suoi lavori consente di comprenderne la grandezza e soprattutto l’influenza su tutta la scena musicale settecentesca.
Alla base dell’opera vivaldiana c’è una profonda esigenza di chiarezza, ordine e semplicità che non diventano mai fini a se stesse ma si mettono al servizio di uno stile aperto, in grado di assecondare umori, pulsioni e tensioni. Tra i suoi lavori più importanti vanno citati “L’estro armonico”, “La stravaganza”, “Il cimento dell’armonia e dell’invenzione”.

6. Johann Sebastian Bach, un tipo casa e chiesa
Considerato mentre era in vita un organista virtuoso ed insuperabile, è solo ad un secolo dalla sua morte che viene riscoperto –come compositore ineffabile- grazie ad un’esecuzione della “Passione secondo Matteo” di Felix Mendelssohn.
Stiamo parlando di Johann Sebastian Bach, strumentista e compositore nato nella cittadina tedesca di Eisenach il 21 marzo 1685. Nel corso dell’infanzia la sua naturale passione per la musica viene assecondata dal padre Ambrosius che lo avvicina al violino e alla viola. In seguito alla morte dei genitori impara a suonare organo e clavicembalo sotto la guida del fratello Johann Cristoph. L’allievo supera in poco tempo il maestro: Johann Sebastian nel 1703 è già un rinomato e richiestissimo organista. Nel frattempo studia con fervore l’opera dei grandi compositori italiani (come Corelli, Legrenzi, Albinoni, Frescobaldi e soprattutto Vivaldi) passando intere notti sul materiale musicale reperito presso la nutrita biblioteca di Luneburg, alla flebile luce della candela e compromettendo per sempre la propria vista.
Nel 1705 è organista ad Arnstadt. Un bel giorno viene a sapere che a Lubecca si esibirà il suo idolo D. Bextehude. Senza pensarci due volte Johann Sebastian lascia lo strumento e, lontano dal preoccuparsi di chiedere permessi o ferie, si incammina: d’altra parte sono solo 400 chilometri, che percorre a piedi. Al suo ritorno –parecchi giorni dopo la partenza- viene licenziato. Non è, quest’ultimo, un fatto eccezionale: spesso il compositore, in virtù di un carattere non proprio accomodante, entra in conflitto con i suoi datori di lavoro e rassegna le dimissioni, quando non è malamente allontanato. Tra un nuovo incarico e l’altro, si ritrova a suonare alla corte di Sassonia-Weimar, dove viene particolarmente apprezzato e dove ha modo di comporre nuove partiture, nonché di approfondire lo studio degli amatissimi compositori italiani del passato.
Nonostante gli impegni familiari (si sposa due volte e ha, in tutto, una ventina di figli), Johann Sebastian trova il tempo di lavorare e comporre una serie di capolavori che si distinguono non tanto per caratteristiche rivoluzionarie o di innovazione, quanto per l’essere una chiusura perfetta e inattaccabile della musica sino a quel momento concepita: la grandezza di Bach sta nel trasporre le forme polifoniche nella sfera di movimenti della moderna armonia strumentale. Nell’opera di Johann Sebastian Bach domina l’elemento spirituale e questo lo mette a margine delle mode del periodo (il barocco –che all’epoca è il genere che va per la maggiore- ha natura ben più frivola) e il fatto che egli sia anche poco incline alla mondanità non lo aiuta in alcun modo. Poco male, perché lo stare in disparte a lavorare gli permette di dare forma ad una serie di composizioni (opere, ouvertures, concerti, sonate e suite) d’indiscutibile rigore compositivo e dalla rara perfezione formale, ricche di geniali soluzioni e invenzioni.
Nel 1749 le condizioni di salute di Johann Sebastian Bach declinano velocemente. Muore il 28 luglio 1750 –oramai completamente cieco- per un attacco cardiaco, lasciando incompiuta una delle sue opere più grandi, l’ “Arte della fuga”.
Per avvicinarsi alla figura di Bach è sugge
rito l’ascolto delle seguenti opere: “Concerti Brandeburghesi”, “Il clavicembalo ben temperato”, “Variazioni Goldberg” e la sopra citata “Arte della fuga”.

7. Wolfgang Amadeus Mozart, l’eterno enfant prodige
Salisburgo, primavera del 1764. Il violinista Leopold Mozart rientra a casa in compagnia di un amico, dopo essere stato in chiesa. Trova il piccolo figlio Wolfgang Amadeus –che è nato il 27 gennaio 1756 e ha appena sei anni- intento a riempire di pallini e stanghette alcuni spartiti. Gli chiede cosa stia facendo e il bambino risponde: “Sto componendo un concerto per clavicembalo. Ho quasi finito il primo tempo”. Le serissime parole vengono accolte da una bonaria risata, dopodiché nonostante Wolfgang si opponga (“Vi prego, non ho finito, lasciatemi lavorare ancora!”) suo padre dà un’occhiata ai fogli spiegazzati e pieni di macchie: in quel momento si rende conto che sulla carta c’è l’opera di un genio. Smette di ridere e decide di dedicare la sua vita a coltivare, e a far conoscere, il talento del figlio. Mozart inizia con regolarità i propri studi a Salisburgo (ma, va detto, suona violino e clavicembalo già da quando aveva quattro anni) e, grazie all’intraprendenza del genitore, inizia a girare in lungo e in largo l’Europa a bordo di scomode, umide e traballanti carrozze lanciate su strade dissestate. Dopo essersi dedicato con impegno alla scrittura di complicate sinfonie, tra il 1773 e il 1776 il giovane Mozart si interessa alla composizione di Divertimenti e Serenate, dal carattere vivace e dinamico, che gli permettono di sviluppare soluzioni musicali sorprendenti. Queste opere vengono eseguite principalmente in contesti mondani, come le feste o i banchetti.
Esaurito l’interesse per queste forme compositive, Mozart si dedica alla musica sacra. Viaggia frequentemente alla volta di Parigi, dove il suo talento non riesce ad affermarsi. Dopo la morte della madre Anna Maria decide di tornare a Salisburgo. La sua natura spiccatamente indipendente e la riluttanza alle imposizioni lo portano a svincolarsi dal giogo del suo principale committente, l’arcivescovo Colloredo (che in una malaugurata occasione lo aveva preso addirittura a calci), per lavorare in completa autonomia: è forse il primo caso di concreta e completa emancipazione nella Storia della musica. Trasferitosi a Vienna, riceve un prestigioso incarico dall’imperatore in persona. Tra il 1781 e il 1786 Wolfgang Amadeus Mozart è uno stimato pianista e compositore. Si dedica alla scrittura di concerti, quartetti e quintetti, in un crescendo di pubblica ammirazione. La sua opera diviene sempre più caratterizzata da elementi in armonioso contrasto, una fusione di ingenua naturalezza e raffinata ricercatezza.
Si avvicina anche al teatro e, grazie alla collaborazione con il librettista italiano Lorenzo Da Ponte, produce la trilogia italiana costituita da "Le nozze di Figaro", "Don Giovanni" e "Così fan tutte".
Purtroppo l’indipendenza artistica si ritorce contro Mozart, che inizia a versare in drammatiche ristrettezze economiche. Ai problemi di natura finanziaria si aggiungono le condizioni di salute via via più gravi e le difficoltà esistenziali (come la morte del padre). Mozart trascorre gli ultimi anni della propria vita nella nera miseria, vessato da umiliazioni intollerabili. Muore all’una di notte del 5 dicembre 1791, lasciando incompiuto l’immenso “Requiem”.
Tra le sue opere, per iniziare a comprenderne la grandezza suggeriamo l’ascolto dei “Concerti per violino K216, K218, K219”, del “Concerto per clarinetto e orchestra KV622”, del “Requiem K626”, de “Le nozze di Figaro”.

8. Ludvwig van Beethoven, il ribelle
Nato a Bonn il 16 dicembre 1770, Ludwig van Beethoven non è –volendo azzardare un paragone con Mozart- un fanciullo prodigio, anche se suo padre vorrebbe tanto che lo fosse, se non altro per poterne sfruttare il talento e grazie a questo vivere di rendita. Il periodo storico in cui vive il giovane Ludwig è gravido di grandi cambiamenti: dopo le profonde trasformazioni portate dalla Rivoluzione Francese e gli sconvolgimenti dovuti alle guerre napoleoniche, anche la figura del compositore assume connotati differenti. Non è più l’artista distaccato ed isolato, esclusivamente concentrato sulla propria opera (come Bach) e neanche il genio che alterna momenti di estasi artistica a fasi di pura mondanità (come Händel o Mozart). È piuttosto e prima di tutto un uomo, che poggia su chiari ideali e su una lucida coscienza morale. Lo Sturm and Drang e il conseguente romanticismo influenzano ed esaltano l’ispirazione di Beethoven, il cui temperamento ben si sposa con queste correnti di pensiero (ed azione). All’età di 12 anni egli lascia Bonn per trasferirsi a Vienna, dove si fa notare per un approccio inaudito alle esecuzioni per pianoforte: assecondando il proprio carattere impulsivo, indomito e focoso, si produce in vere e proprie aggressioni allo strumento, alternate a momenti di rara ed inarrivabile delicatezza. Si tratta di una reale proiezione in musica della personalità incontenibile di un genio che, grazie al proprio talento, lascia senza parole le audience più disparate.
La volontà combattiva, abilmente tradotta in musica, rivoluziona i canoni tradizionali della musica ottocentesca, intensificando ogni forma espressiva, moltiplicando gli strumenti in orchestra ed, al contempo, inasprendo le complessità esecutive degli strumenti solisti, in un crescendo di tensione drammatica.
Beethoven è il primo artista moderno sia per l’imponenza delle sue composizioni, sia per il senso di responsabilità con cui si rapporta con ognuna delle proprie opere. E va sottolineata anche l’attitudine a cercare di superare costantemente i propri limiti, per arrivare là dove nessuno era giunto prima. Gli elementi basilari dell’arte beethoveniana sono il dolore del vivere e l’energia impiegata per affrontarlo, trovando le opportune, sofferte soluzioni.
L’emancipazione che costa cara a Mozart diventa, nel caso di Beethoven, un fondamentale strumento di indipendenza che lo porta a ridefinire la condizione sociale del musicista, che avrà –di qui in poi- un proprio ruolo autonomo, senza essere al soldo dei potenti. Proprio per questa ragione la musica, da questo momento, uscirà dagli asfittici ambienti aristocratici per essere divulgata nel nascente ceto borghese: infatti per quanto complessa e non immediata, la musica di Beethoven riscuote grande successo di pubblico e di critica.
Afflitto dalla sordità, Beethoven compare in pubblico per l’ultima volta il 7 maggio 1824, durante l’esecuzione della “Nona sinfonia”. Muore stremato dalla gotta, dai reumatismi e dalla cirrosi epatica il 27 marzo 1827.
Le opere da ascoltare per comprenderne il genio sono “Le nove sinfonie”, i “Concerti per pianoforte 1-5”, le “Sonate per pianoforte Patetica e Chiaro di luna”, i “Quartetti per archi op. 130 e 133”.

9. Franz Schubert, il romantico

La componente più malinconica e soave del romanticismo trova in Franz Schubert (nato a Lichtental, un sobborgo di Vienna, il 31 gennaio 1797) un grande ed autorevole esponente. Nell’opera del compositore, che in Beethoven riconoscerà un maestro incommensurabile, non si trovano elementi di aggressività, di potenza o di tensione. Sono presenti, invece, sentimenti gentili e delicati, pensieri d’amore casti, nostalgie struggenti e timide fantasticherie. Ciò che caratterizza ogni composizione di Schubert è la grazia, il senso di attesa e sospensione, l’importanza della pausa. È una comunicazione intima in chiave musicale, non priva di un ripiegamento su se stesso da parte dell’artista, che nella musica trova uno sfogo espressivo ed una via di fuga dalla realtà. Traducendo i poemi in musica, i Lied schubertiani danno dolce levità alle parole e le enfatizzano allo stesso tempo. Nel corso del tempo il generale tono sentimentale che pervade l’opera schubertiana si converte ad un’aspra amarezza di fondo, che trasforma la tristezza in ossessivi pensieri di morte.
Il compositore muore prematuramente a causa di una malattia venerea -contratta durante il soggiorno presso la residenza estiva del conte Esterházy in Cecoslovacchia- il 19 settembre 1828 a Vienna, a poco più di un anno dalla dipartita di Ludwig van Beethoven.
Tra le opere più importanti di Schubert vanno ricordate “Fantasia per pianoforte a quattro mani”, “L'incompiuta”, “Ave Maria”, “La morte e la fanciulla”, ”Viaggio d'inverno”.


Sperimentazione Trasgressione Improvvisazione Invenzione

 

Le rockband che hanno rivoluzionato il modo di fare musica dal vivo

Il concerto rock è il momento nel quale un gruppo propone le proprie canzoni ad un pubblico di proporzioni più o meno vaste (variabile da 1 persona a 1.000.000 di persone, come nel caso del concerto gratuito tenuto dai Rolling Stones a Rio de Janeiro, nel febbraio 2006).
Nel migliore dei casi l'esibizione dal vivo permette a una band di far rivivere il proprio repertorio, assecondando gli umori, le tensioni e le gioie del momento, ma soprattutto catturando l'energia -positiva o negativa- che arriva dalla audience e canalizzandola all'interno della musica.
La storia del rock ci ha fatto conoscere band che -in sede di concerto- non fanno altro che replicare le composizioni già esistenti su disco e, all'opposto, band che sul palco arricchiscono con improvvisazioni, inserimenti e sorprese i pezzi noti o che, addirittura, usano il palco per creare materiale totalmente inedito.
Tutte le pratiche sopra elencate sono rispettabili nonchè necessarie: saranno le ascoltatrici e gli ascoltatori ad indirizzarsi verso ciò che ritengono maggiormente soddisfacente o esaltante.
Di seguito abbiamo preso in esame alcune band che hanno contribuito all'evoluzione strutturale del concerto rock. L'elenco ovviamente non è esaustivo ma fa luce su un mondo di gruppi, autori, interpreti e fantasisti che, a più di mezzo secolo dalla nascita del rock'n'roll, non accenna a diminuire né ad arrestare la propria vitalità.

1. The Doors
Nel 1967 sul mercato americano arriva l'album di esordio dei Doors, una formazione californiana assortita in modo quanto meno bizzarro: uno studente di cinema con uno speciale talento per le body performance (Jim Morrison), un tastierista con ambizioni sinfoniche (Ray Manzarek), un chitarrista flamenco (Robbie Krieger), un batterista jazz (John Densmore). Tanto i Beatles erano in sintonia, quasi in simbiosi tra di loro, tanto i Doors erano distanti -per temperamento, attitudine e ambizioni- l'uno dall'altro. Questo li portò sempre a suonare l'uno contro l'altro, anche se -per una sorta di miracolo artistico- nel senso più produttivo e utile del termine. Era come se ognuno di loro fosse posizionato su un diverso punto cardinale e si muovesse in opposta direzione, espandendo le proprie possibilità espressive e, di conseguenza, quelle dell'intero gruppo.
I concerti della band, infatti, avevano una forza che si propagava in modo inaudito ed incontenibile, investendo e galvanizzando la audience. Morrison, in particolare, trasformò la figura del front-man in una sorta di sciamano moderno che si prefiggeva il compito di superare ogni limite sino a quel momento conosciuto, spalancando le porte della percezione di chi ne seguiva gli insegnamenti e le indicazioni.
I live dei Doors divennero, a partire dalla costituzione della band (avvenuta nel 1965), dei work in progress in bilico tra sacro e profano, dove -come minimo- succedeva l'inaspettato.
L'unicità dei Doors stava nel mantenere un equilibrio tra eccesso e normalità, tra pensiero e azione, tra illuminazione e perversione, tra sperimentazione e immediatezza: da una parte trovavano posto eccessi e follie (anche nella vita privata), dall'altra c'era il loro brillante repertorio di canzoni – a volte inconsuete, come “The End”, grande esempio di improvvisazione e trasgressione verbale, o come l'immenso testamento artistico “Riders On The Storm”- che avevano presa immediata sul pubblico.
Ognuno degli album di questa band vendette almeno un milione di copie.
Le cose andarono bene sino al 1969, anno nel quale, durante un malaugurato concerto al Miami's Dinner Key Auditorium, un Morrison completamente ubriaco perse il controllo e finì per essere incriminato con gravi accuse, non ultima quella di aver simulato atti osceni.
La carriera dei Doors terminò due anni dopo ma il lascito della band fu (ed è) enorme.
Un numero sterminato di gruppi, dagli Stooges ai Cult ai Red Hot Chili Peppers, ha assimilato e attualizzato la lezione di Jim Morrison e dei Doors.

2. The Who
Tutto cominciò con una chitarra lanciata inavvertitamente contro il basso soffitto di un locale londinese, durante un'esibizione dal vivo: lo strumento a sei corde era del giovane Pete Townshend che, al termine del concerto, dovette preoccuparsi di riattaccare il manico alla cassa. Questo gesto assoutamente non premeditato attirò l'attenzione di un giornalista che invitò Townshend a rifarlo ancora, assicurando in cambio una recensione sulla prima pagina del quotidiano per cui lavorava. La chitarra venne frantumata nel concerto successivo ma la recensione non arrivò. Poco male, perchè il gesto -aggressivo, estremo e liberatorio- contribuì ad alimentare la fama di questa band emergente che si chiamava The Who, un quartetto formato da Townshend (che scriveva la quasi totalità dei brani), Roger Daltrey alla voce, John Entwistle al basso e il folle Keith Moon alla batteria.
Nati come gruppo mod, gli Who aumentarono album dopo album (e soprattutto concerto dopo concerto) la carica esplosiva della loro musica. Le esibizioni dal vivo diventavano il luogo ideale nel quale liberare energie virtualmente inesauribili. La guida emotiva e spirituale del gruppo era Townshend, ma il propulsore era Moon, che detestava le canzoni sdolcinate o “lente”, e finiva per infiammare anche i pezzi più tranquilli. Spesso le performance degli Who terminavano con la distruzione della chitarra e della batteria, in un crescendo quasi orgiastico che trasformava le canzoni in suite e le suite in apocalisse. Gli Who furono la prima, vera band di hard rock della Storia e seppero aprire molte nuove strade espressive, grazie alla creazione di opere rock come
Tommy” (1969), il progetto “Lifehouse” (che vide la luce sotto forma di album, con il titolo “Who' s Next”, nel 1971) e “Quadrophenia” (1973). Per avere un'idea della potenza live degli Who è caldamente suggerito l'ascolto dell'album “Live At Leeds” (1971), recentemente ripubblicato con l'aggiunta di molti inediti eccellenti, inspiegabilmente esclusi nell'edizione originale.

3. Frank Zappa & The Mothers of Invention
L'intera carriera del compositore e polistrumentista Frank Zappa è segnata da una serie di eventi assurdi, edificanti, esilaranti e rivelatori. Il primo gruppo nel quale -nel 1958- un giovanissimo Zappa muove i primi passi musicali si chiama The Blackouts. La denominazione prende spunto da un fatto accaduto ai musicisti in formazione: avevano mangiato delle mentine talmente forti da perdere i sensi (da qui il nome).
Nei primi anni '60 Zappa si esibisce in TV suonando il telaio di una bicicletta. Si tratta di una performance sperimentale che, per quanto seriosa, suscita interesse e divertimento. Nel frattempo scrive anche complicate partiture per orchestra che commenteranno le scene salienti di film a tematiche spinte (ma visivamente casti).
Nel 1965 forma un gruppo musicale che prende il nome di Mothers Of Inventions. Questa band porterà sui palchi una ventata di novità, dando vita a performance che miscelano teatro dadaista, rock'n'roll, musica barocca, boogie woogie, jazz (dallo swing al free), blues e avanguardia. Insomma, un guazzabuglio di stili uniti dal massimo comun denominatore Zappa, che a partire dall'esperienza con le Mothers impara quanto sia importante continuare a rielaborare, giorno dopo giorno, le composizioni e, soprattutto, realizza che un brano non finisce mai, cioè non è mai “chiuso” ma può continuare a essere plasmato in base a molte differenti variabili.
Nel corso della propria carriera Zappa scopre:
- che la stessa canzone suonata da musicisti diversi prende connotati differenti (in base al carattere, alla predisposizione e al talento di chi suona);
- che l'esecuzione live di un pezzo dipende anche dal contesto: se avviene in uno stadio affollato da migliaia di persone avrà un certo sapore, se invece ha luogo in uno scantinato adibito a locale davanti ad un pubblico sparuto il risultato sarà diverso (più raccolto, intimo, caldo o –perché no- sonnacchioso);
- che una band, guidata in modo opportuno da un leader capace e attento, diventa una macchina in grado di suonare qualsiasi cosa, dalle sciocche canzoncine ai pezzi più complicati.
Zappa credeva nei concerti e suonò dal vivo per mesi e mesi ogni anno, sino a quando il fisico glielo permise.
Era solito registrate tutti i concerti, per selezionare il materiale migliore e pubblicarlo su disco.
In alcuni casi si divertì a creare dei concerti inesistenti, prendendo -ad esempio- una parte di batteria registrata nel concerto X, una parte di basso registrata nel concerto Y e un a-solo di chitarra registrato nel concerto Z. Una pratica che può sembrare astrusa (alla quale lui diede il nome di xenocronia) ma che produsse risultati stupefacenti. Zappa dimostrò che solo il vero musicista è in grado di sostenere un concerto ricco di complessità.
E difese strenuamente l'importanza di fare concerti per tenere in vita lo spirito, il significato, l'essenza del rock.
Ascolti suggeriti per entrare nello sconfinato universo musicale zappiano live: “Sheik Yerbouti”, “You Can't Do That On Stage Anymore vol. 1”, “The Best Band You Never Heard In Your Life”.

Highlights: Pink Floyd, Grateful Dead, Led Zeppelin, Ramones, Peter Gabriel, Phish, Slipknot
Piccoli accenni a grandi band che, in modi diverso, hanno ridefinito i parametri del concerto rock

Pink Floyd: grandi sperimentatori da un punto di vista visivo, hanno arricchito le loro performance di effetti speciali coerenti con la musica e non fini a se stessi.

Grateful Dead: hanno re-inventato i contenuti del tipico concerto pop-rock, tenendo un piede nella scarpa della tradizione (country, blues, rock) e l'altro nella scarpa dell'innovazione e della ricerca (tra sperimentazione, psichedelia e improvvisazione).

Led Zeppelin: veri padri dell'heavy metal, non si sono accontentati di questo. Per ragioni personali hanno infarcito le loro canzoni di significati e simboli magici, esoterici o diabolici, contribuendo ad aumentare il fascino della band e trascinando ai loro concerti folle sconfinate, in precedenza mai messe insieme da nessun altro gruppo.

Ramones: con loro inizia la rivoluzione punk. Non sapevano suonare ma volevano fare musica a tutti i costi. I loro primi concerti avevano una scaletta di 20 pezzi e duravano, in tutto, 17 minuti (!). Ma la loro ostinazione li ha premiati, trasformandoli in una cult band che, ancora oggi, ha milioni di estimatori in tutto il mondo.

Peter Gabriel: ha sempre amato unire suono e immagine. Già ai tempi dei Genesis indossava costumi diversi a seconda dei brani eseguiti. Come solista ha ulteriormente perfezionato con idee geniali ed originalissime questa propensione per la messa in scena. Ancora oggi, con quasi 40 anni di carriera sulle spalle, riesce ancora a sorprendere.

Phish: eredi dei Grateful Dead, hanno saputo trasformare ogni concerto in una festa dove non mancavano mai i momenti di sorprendente improvvisazione. Molti dei loro fan sapevano che ogni concerto era diverso dal precedente e dal successivo e, quindi, valeva la pena di essere visto. Conclusione: moltissime persone seguivano i loro tour dall'inizio alla fine (per la gioia degli organizzatori, che vendevano tonnellate di biglietti).

Gli Slipknot: suonano indossando tute da lavoro (talvolta con una discreta cravatta) e maschere inquietanti che fanno pensare al pazzo con la motosega di “Non aprite quella porta”. I loro concerti sono un possente assalto sonoro che può essere classificato come alternative metal. Le loro identità segrete alimentano curiosità ed interesse del pubblico. Il rifiuto di ogni compromesso commerciale è stato premiato dal grande pubblico, che li ha portati ai primi posti delle classifiche americane.


Professione musicista: interviste ai professionisti

L'oggetto di questo secondo viaggio nella musica è l'esecuzione dal vivo, ovvero il concerto. Un momento nel quale i brani musicali incisi in studio prendono vita, acquistando nuova energia e portandola direttamente, anzi fisicamente al cuore del pubblico. Il processo creativo che porta alla genesi di una canzone o di un'opera, e alla sua esecuzione, è complesso e articolato, può essere compreso in modo autentico solo entrando a contatto con chi lo fa quotidianamente. Per questo abbiamo incontrato tre artisti che ogni giorno (e, in alcuni casi, ogni notte) lavorano con la musica, accomunati da un approccio serio, sincero e appassionato.

La cantante, pianista ed autrice Pia Tuccitto, il front-man della Bandabardò Enrico "Erriquez" Greppi e il maestro Leonardo Rossi. Ognuno di loro ci ha raccontato cosa significa scegliere una professione legata alla musica, quali onori e quali oneri comporta, che emozione dà suonare e cantare dal vivo. E non sono mancati dei gustosi aneddoti che fanno parte della vita di ogni musicista.


“Suonare davanti alla gente, anche fosse una sola persona, è una cosa che riempie il cuore”
Intervista a Pia Tuccitto
Cantante e pianista, Pia è un’autrice dal temperamento non comune che ha saputo creare un proprio, originalissimo modo di scrivere canzoni, pur restando nel solco della tradizione melodica italiana.
Forse per questa ragione ha avuto l’onore di scrivere brani per star come Patti Pravo e Vasco Rossi, oltre a sviluppare una carriera come solista.

Pia, quando e come hai scoperto la musica?

“La musica è geneticamente presente nella mia famiglia, da sempre. Mio nonno era un musicista, suonava i fiati (flicorno e flauto in particolare) nella banda del paese siciliano in cui era nato e viveva. Essere uno degli elementi della banda paesana era un grande prestigio, perché voleva dire partecipare a tutti i principali eventi, di carattere religioso e non. Per quanto riguarda i miei parenti toscani, una delle mie zie suonava il pianoforte. Io mi sono avvicinata alla musica studiando proprio questo strumento, avevo all’incirca sei anni. Ha sempre giocato a mio favore la fortuna di avere un buon orecchio musicale, che mi consentiva di capire e scrivere velocemente la musica.”

La tua formazione scolastica è esclusivamente musicale?
“No, sono diplomata in ragioneria. Ma l’amore per la musica è stato più forte di ogni altra cosa.”

Chi sono stati gli idoli musicali della tua infanzia e della tua adolescenza?
“Da piccina ero una fan sfegatata di Renato Zero. Beh’, proprio piccina piccina non ero: frequentavo le scuole medie inferiori e restai sconvolta da questo personaggio così dirompente, innovativo, sorprendente, eccessivo, diversissimo dal Renato di oggi. Cominciai a rifare le sue canzoni al pianoforte, interpretandole a modo mio. Da questa pratica ho imparato moltissimo. Un’altra voce che ho amato è stata quella di Loredana Bertè, che pur essendo vicina alla tradizione canora italiana aveva un’indole e un’attitudine funk. Sono sempre stata una grande appassionata di musica italiana anche in virtù dei testi, che spesso sanno trasmettere grandi emozioni. I cantanti e soprattutto i cantautori del nostro paese mi hanno insegnato e fatto amare i valori più importanti della vita.”

Quanto è difficile, per te, scrivere i testi delle canzoni?
“Guarda, io difficoltà non ne ho mai avute. Pensa che a scuola prendevo sempre 4 con i miei temi d’italiano! Non perché non sapessi scrivere, ma piuttosto perché non ero prolissa, andavo subito al dunque. Ma questa naturale propensione alla sintesi mi ha aiutato tanto quando si è trattato di fare canzoni. Io parlo della mia vita e lo faccio con naturalezza, riuscendo a dare sempre qualcosa a chi ascolta. Credo che scrivere i testi delle canzoni sia, e debba essere, semplice come parlare con un’altra persona. Tanti autori si complicano la vita con metafore o chissà cosa. Io no, le parole delle canzoni mi vengono di getto.”

Parlando di canzone italiana, è stato detto tutto o c’è ancora qualcosa da raccontare?
“È’ il punto di vista che fa la differenza. Il modo di pensare di ogni persona, la sua prospettiva, le sue sensazioni. In effetti a volte mi chiedo: ho davvero qualcosa da dire che ancora non sia stato detto? Non sono altro che un puntino nell’universo! Però sono un puntino che ha una testa e una voce. Io non ho mai fatto piano-bar e neanche cover, ho coltivato la mia espressività per sviluppare il mio personale talento. Credo che ogni persona dotata di sensibilità artistica debba lavorare in questo modo, senza perdere di vista la propria strada. Bisogna riuscire a conservare la purezza, ascoltarsi ed ascoltare tanta, tantissima musica, senza chiudersi in un unico genere.”

Scrivi le tue canzoni sempre nello stesso posto oppure no?
“No, non ho un luogo ideale per comporre. Lo faccio ovunque. Quando mi viene l’ispirazione non la faccio scappare. A volte mi vengono in mente delle melodie mentre sono al volante: mi fermo e le scrivo, così le catturo. Poi ci lavorerò meglio in un secondo momento. Le idee vengono quando meno te lo aspetti.”

Ti piace suonare dal vivo?
“Sì, è un’emozione grandissima. Perché scrivere canzoni è bello, ma suonare davanti alla gente, anche fosse una sola persona, è una cosa che riempie il cuore. Perché esci allo scoperto e ti dai agli altri.”

Quali sono i tuoi concerti che ricordi con maggior piacere?
“Non potrò mai dimenticare il mio primissimo concerto di tanti, tanti anni fa. E resta nella mia memoria anche il concerto che feci prima di Vasco a S.Siro, davanti a 64.000 persone che, nonostante fossero impazienti di ascoltare il loro idolo, mi apprezzarono. I concerti più belli sono quelli in cui senti che la gente partecipa, che canta con te, è una cosa che non si può descrivere.”

Parliamo delle tue collaborazioni “illustri”.
“La più importante è sicuramente quella con Vasco Rossi. Tutto iniziò nel 1993, quando partecipai a Castrocaro e venni notata da Gaetano degli Stadio. Lui mi portò nel team di Vasco. Le cose naturalmente si sono mosse con grande lentezza, se pensi che per fare il mio primo disco ci ho messo 12 anni! Comunque, nel 2000 Vasco mi propose di fare qualcosa con lui, che all’epoca aveva in ballo un progetto con Patti Pravo. Finii a lavorare per lei e le scrissi sette canzoni.”

Che tipo è Patti Pravo?
“È una persona molto diretta, non ha mezze misure. Se le stai antipatica è finita. Per fortuna noi ci siamo intese subito. Per capire com’ero, appena ci presentarono volle subito provare a cantare con me. Il nostro rapporto di lavoro è stato molto intenso, quattro mesi in cui eravamo quotidianamente gomito a gomito.”

E Vasco?
“Con lui c’è un rapporto speciale che non potrei spiegare a parole neanche se lo volessi. È’ un legame artistico e affettivo, una grande e profonda amicizia. Gli sono grata perché ha creduto nel mio talento e ha lottato molto per riuscire a far nascere il mio primo album da solista.”

Quali sono stati i concerti più belli che hai visto negli ultimi anni?
“Dunque…i Red Hot Chili Peppers, a Bologna due anni fa. Il loro cantante, Anthony Kiedis, è un vero animale da palco, mi sento molto simile a lui. I loro pezzi sono bellissimi, ricchi di stupende melodie e di sensualità. Per quanto riguarda gli italiani, beh’…tutti i concerti di Vasco Rossi, perché è in assoluto un grande. E il concerto di Renato Zero che vidi l’anno scorso.”


“Io amo gli artisti che dal vivo danno tutto, anche l’anima”
Intervista a Erriquez (Bandabardò)

Con una serrata attività live e una discografia di qualità, la Bandabardò è diventata nel corso degli anni un’importante realtà musicale nel panorama nazionale. Abbiamo avuto il piacere di incontrare il loro front-man e portavoce Erriquez che, in una pausa tra un impegno e l’altro, ci ha raccontato il presente della band e ha anticipato i piani per l’immediato futuro.

Erriquez, come vanno le cose?
“È un periodo meraviglioso. Sono appena tornato dalla Polonia, dove abbiamo suonato. Mentre eravamo lassù siamo stati in visita ai campi di sterminio di Cracovia, ed è stata un’emozione molto forte. Musicalmente siamo molto prolifici, ogni giorno nasce una nuova canzone. Questo è sempre un buon segno, vuol dire che l’intesa è ancora molto forte e che abbiamo ancora molta strada da fare come gruppo. Stiamo iniziando a lavorare alla definizione al tour italiano dell’estate. Nelle prossime settimane faremo parecchie date in Germania e in Francia.”

Con una quantità incalcolabile di concerti sulle spalle, ti emoziona ancora partire per un tour?
“Sì, l’inizio di ogni tournée è un momento impagabile, che si debba stare in giro una settimana o sei mesi. Perché senti l’emozione prima ancora di cominciare e sai che cercherai di vivere ogni cosa con la massima intensità. Noi della Bandabardò siamo tutti piuttosto viscerali e, lo dico onestamente, ancora puri. Quando siamo sul palco ci vedi senza finzioni o atteggiamenti predefiniti. Non ci piace fingere, quelli che vedi e che senti dal vivo siamo noi.”

Torniamo al vostro viaggio in Polonia, vuoi raccontarmelo?
“Tutto è iniziato con la partenza in treno da Carpi. Ci attendeva un viaggio di ben 24 ore! Quando devi stare così tanto su un vagone non fai più caso –faccio per dire- ad un’ora di ritardo. Eravamo una vera comitiva, con noi c’erano persone note, come lo scrittore Carlo Lucarelli, e tanti ragazzi delle scuole che con la loro curiosità, la loro sete di conoscenza, il loro interesse per la Storia e per la scoperta della verità… mi hanno davvero emozionato. Avevano lo spirito giusto e, d’altra parte, venire in Polonia era stata una loro scelta. Quando siamo arrivati a Cracovia, in una gelida mattina d’inverno in cui la temperatura era a -18°, e quando abbiamo visitato Birkenau…abbiamo avuto un’idea di cosa volesse dire viverci ai tempi dei campi di concentramento. E noi eravamo vestiti come esquimesi, non certo con quattro stracci leggeri come i prigionieri dell’epoca. Intorno a noi c’era il nulla. Sulla testa un cielo azzurro terso. E il bianco tutto intorno, i casermoni della morte…È’ stato davvero pesante. Alla sera i ragazzi hanno cantato e ballato, per liberarsi da quel senso di schiacciante oppressione che tutti avevamo addosso. Hanno celebrato la vita. Siamo qui per la vita, non per la morte. Al nostro ritorno eravamo mesti e silenziosi, ma interiormente più ricchi e consapevoli.”

Parliamo dei vostri nuovi pezzi. Tre, mi dicevi?
“Sì, avrebbero dovuto essere due, ma –come ti dicevo- ne sono nati tre. Li inseriremo nella nostra (scusa la parola) compilation che uscirà nei prossimi mesi. Ci sarà anche una cover. Forse avremmo potuto lavorare prima sulle nuove canzoni, ma siamo sempre stati asini come a scuola: ci riduciamo a studiare il giorno prima dell’esame! E poi le idee non possono nascere a comando!”

In tutti questi anni di intensa attività live, com’è cambiato il vostro rapporto con il palco?
“Che ci divertiamo sempre di più! Sin dal primo concerto c’è sempre stato un bellissimo rapporto con la gente che veniva a sentirci. Anche se in qualche caso, soprattutto agli inizi, nelle zone in cui la gente ancora non ci conosceva era un po’ difficile scaldare l’atmosfera. La cosa più difficile è scontrarsi con un rifiuto preconcetto dovuto alla chiusura mentale. Ma abbiamo imparato ad imporci, a dire: noi siamo così, prendere o lasciare. E a farlo, naturalmente, con le nostre canzoni.”

Tu, come spettatore, cosa vuoi o cosa ti aspetti da un concerto?
“Io amo gli artisti che dal vivo danno tutto, anche l’anima. Che non sono schiavi della vanità o della routine. Che mettono il cuore in ogni concerto e sono in grado di stabilire un rapporto di scambio energetico con il pubblico. Suonando, cantando o anche parlando tra un pezzo e l’altro. C’è anche chi non ha nessun bisogno di parlare e, quindi, non lo fa. Francesco De Gregori, ad esempio, canta ma non parla, e i suoi concerti sono sempre comunque molto intensi. Io detesto chi incita la gente a saltare o a battere le mani: il concerto è una festa e ognuno ha diritto di viverla come meglio crede.”

È’ faticoso vivere on the road?
“La Bandabardò sta insieme da sette anni e posso dire che, facendo tantissimi concerti, i problemi ci sono stati. Non intendo tra di noi. I rapporti sentimentali o di amicizia rischiano di deteriorarsi quando si mettono di mezzo le lunghe distanze. In più c’è l’aspetto della notorietà, che è pesantissimo da gestire, soprattutto quando arriva e non te lo aspettavi. Suonare dal vivo, alla fine, è la cosa più semplice e più bella che un musicista possa fare. La gente che viene a sentire i concerti ti manda il proprio amore. È’ un’immensa gratificazione, anche se non bisogna correre il rischio di gettarsi alla ricerca spasmodica di un pubblico sempre più grande. Gli artisti devono rimanere tali e non diventare delle star, trincerandosi dietro assurdi privilegi o facendosi contornare da guardie del corpo.”

Secondo te la gente che viene ai concerti si rende conto della fatica che c’è dietro?
“Qualcuno, ma tutto sommato sono ancora pochi. Mi capita ancora di sentire la domanda: a parte l’hobby della musica che lavoro fai? E il duro lavoro non è solo quello dei musicisti, ma soprattutto quello dei tecnici che, dopo il concerto, smontano tutto e partono verso il prossimo luogo in cui suoneremo, senza dormire o quasi, mentre noi chiacchieriamo con la gente o andiamo a riposare.”

C’è un concerto al quale hai assistito che ricordi con piacere?
“Una ‘Notte della Taranta’ in Salento. Ero letteralmente sconvolto, mi hanno dovuto portare a letto, sembravo davvero un tarantolato. Ho apprezzato molto Caparezza dal vivo, un grande artista, appassionato e sincero. I suoi testi sono buffi e intelligentissimi. Capa è grande. Anche i Subsonica mi sono piaciuti molto, ma li preferivo quando c’erano meno megaschermi e più sudore.”

Che suggerimento daresti a chi vuole intraprendere la professione di musicista?
“Di affrontarla davvero come una professione e non come una bellissima passione. Mettersi sotto, imparare, incontrare e parlare con altri musicisti, partecipare alle conferenze, erudirsi sugli aspetti burocratici, dalla siae all’enpals. Spesso incontro persone che mi dicono: ma secondo te posso mollare il mio lavoro e fare musica a tempo pieno? Non c’è una risposta che valga per tutti. La discografia non attraversa un momento favorevole, ma per fortuna sono nate tante piccole realtà che supportano le band emergenti. La musica, ripeto, è una professione e va affrontata con serietà.”


“Non esiste musica bella o brutta, tutto dipende da chi la suona e da come la suona”
Intervista a Leonardo Rossi
La vita del compositore, musicista e direttore Leonardo Rossi è totalmente improntata alla musica.
Impegnato su molti fronti -dal jazz orchestrale alle colonne sonore- il maestro Rossi ci ha parlato del suo lavoro, di come lo affronta e di quali incognite nasconde.

Leonardo, hai voglia di riassumere il tuo curriculum in poche parole?

“Ci provo. Vengo da una famiglia musicale. I miei genitori erano musicisti. Anche mia sorella suonava il pianoforte. Io ho cominciato all’età di 5 anni. Successivamente ho suonato a livello dilettantistico nella banda del paese. Poi ci sono stati i vari gruppetti, dal liscio al rock, un po’ di tutto, fino a quando non ho deciso di trasformare la passione in professione. Ho studiato al conservatorio di Firenze per 7 anni, diplomandomi in orchestrazione di fiati. Mi sono trasferito a Milano, dove mi sono diplomato in direzione d’orchestra nel 1991. Successivamente ho lavorato con gruppi di musica jazz e classica. Dirigo la Brizzi Big Band, fondata da me. Insegno musica. Mi occupo anche di musica da film.”

Scrivi colonne sonore?
“Sì. Recentemente ho composto la musica per un film di Charlie Chaplin. Ma ho anche trascritto brani altrui, scoprendo la bellezza e la complessità di partiture che nascono per accompagnare le immagini e finiscono per restare in secondo piano, pur essendo di grande qualità.”

Esiste un metodo per comporre una buona colonna sonora?
“Ne esistono tanti, ogni compositore sceglie quello che gli è più congeniale. Va detto che un buon commento sonoro è, appunto, un commento, non deve avere eccessivo spessore, altrimenti lo spettatore verrà distratto. Il compositore ha il dovere di mettersi al servizio del film, ascoltando e interpretando i desideri del regista. A volte capita che la musica sia di qualità e il film no: in questo caso la colonna sonora nobiliterà la pellicola.”

Chi sono i tuoi autori preferiti?
“Sicuramente Ennio Morricone. Negli Stati uniti ci sono moltissimi grandi autori, come Danny Elfman, homas Newman, Alan Menken, John Williams.”

Parliamo del tuo lavoro come direttore d’orchestra.
“È’, come hai detto tu, un lavoro, a 360°, molto impegnativo. Anche perché non mi limito: ho un approccio alla musica libero da vincoli. Non esiste musica bella o brutta, tutto dipende da chi la suona e da come la suona. Herbert von Karajan diceva che la lunghezza delle singole note può modificare la natura di un brano e credo che sia davvero così. Io amo lavorare in contesti musicali differenti e cerco di far capire ai musicisti che ogni genere ha bisogno di uno spirito diverso. Chi è abituato a lavorare con la musica classica storce il naso se il pezzo che deve eseguire non è scritto su uno spartito. Allo stesso modo i musicisti pop o rock non hanno familiarità con le partiture. Ma bisogna lavorare su questo, cambiare mentalità, superare le proprie abitudini.”

Quali sono le difficoltà nel lavorare con una big band?
“Tutto dipende dalla levatura dei musicisti e dalla loro conoscenza dell’idioma jazzistico, che è una forma musicale particolare, nata dalla spontaneità popolare. Suonare jazz presuppone un’attitudine speciale e un’elasticità mentale non comune. Due diversi brani swing, anche se hanno lo stesso tempo, non verranno mai suonati in modo identico. Per riuscire a capire questo concetto basilare chi desidera suonare in una big band deve ascoltare tantissimo jazz di questo tipo, comprendere le motivazioni degli autori, leggere i libri giusti. Insomma deve immergersi in questo mondo, per aver un approccio coscienzioso e professionale.”

Dove ascolti la musica?
“Prevalentemente in macchina, perché a casa non ho molto tempo per farlo. Ascolto di tutto, da Carla ley a Jaco Pastorius a Phil Collins, dal pop al rock. Soprattutto ascolto i suggerimenti degli amici. Se mi propongono di sentire un album lo faccio subito, assecondando la mia naturale curiosità per tutto ciò che musica. Ultimamente, grazie ai canali satellitari, ho fatto molte nuove e interessanti scoperte.”

Quanto è importante il suono nella musica?
“Moltissimo, è un parametro fondamentale, quasi quanto la musica stessa. Infatti per la buona riuscita di un album o di un concerto è assolutamente fondamentale il lavoro dei tecnici del suono e dei fonici. La cattiva qualità del suono, oggi, è inaccettabile.”

Qual è, per te, la maggior soddisfazione nel suonare dal vivo?
“Percepire il feeling, l’energia della gente, la sua attenzione e il suo trasporto.”

Quali progetti hai in cantiere in questo momento?
“Un cd di brani scritti ed arrangiati da me, eseguiti dalla Brizzi Big Band. Stiamo anche lavorando all’organizzazione di quattro serate dedicate al jazz, alle quali parteciperanno artisti del panorama jazzistico internazionale.”

Un’ultima domanda: com’è la scena musicale casentinese?
“Questa è una valle chiusa e se uno vuole fare il musicista girovago fa un po’ fatica, ma tante cose sono cambiate in meglio ultimamente. Ad esempio un tempo se volevi studiare dovevi andare in altre città. Oggi, con il fatto che molti musicisti casentinesi sono tornati a casa portando con loro tutto quello che vevano imparato (come è successo a me), le possibilità di imparare restando in zona sono aumentate.”

C'era una volta... La Brizzi Big Band

 

 

 

 

Ne è passata di acqua sotto i ponti da quel lontano 1992, quando Fosco Fei fondò la Brizzi Big Band: un gruppo di dilettanti animati da un insospettabile ottimismo e tanta voglia di fare e ascoltare musica. Quando nel 1995 ne assunsi la direzione, la band si allargò ulteriormente, coinvolgendo progressivamente tutti i migliori solisti della provincia. Un percorso in salita per raggiungere standard sempre più elevati e creare un gruppo che fosse prima di tutto di amici e poi di musicisti.

Oggi la Brizzi Big Band è una realtà ormai consolidata. Oltre all'impegno di ognuno di noi, fonte di grande soddisfazione personale, dobbiamo ringraziare tutti coloro i quali ci hanno permesso di rendere vero il nostro grande sogno.

Nell'occasione di un percorso ormai decennale della Big Band, un grazie particolare va al pubblico che sempre numeroso e appassionato ci ha seguiti, i tanti amici che ci hanno dato fiducia e che possiamo soltanto ricompensare con emozioni semplici ma universali: quelle della nostra musica.

Leonardo Rossi

 

 


Brano audio digitalizzato da Maurizio Principato: sintesi in 7 minuti di centinaia di anni di musica (dal canto gregoriano al DJ set)

Foto di Alessandro Ferrini