...8 Aprile 2006 > Terza tappa di "Viaggio nella Musica" per parlare insieme della DIFFUSIONE DELLA MUSICA e per...

...tentare la fortuna sperando di vincere un biglietto omaggio con l'accesso al backstage per il CONCERTO DI LIGABUE l'8 giugno a Bologna


Siamo giunti alla terza ed ultima tappa del nostro tour attraverso la Storia della musica, che ci ha portato -attraverso il tempo e lo spazio- dall'antica Grecia di Omero al buio medioevo europeo, dal Rinascimento all'Illuminismo e, infine, al Romanticismo.
È’ da qui che ripartiamo oggi, dall'Ottocento, secolo in cui si condensa una fitta serie di cambiamenti sociali e politici, i quali produrranno sviluppi e ripercussioni che si estenderanno sino ai giorni nostri e, in alcuni casi, non hanno ancora esaurito la loro spinta riformatrice.
Cambiamenti che influenzano, innervano o travolgono in primis gli spiriti più sensibili, ovvero artisti, musicisti e compositori. Vi forniremo, come sempre, una serie di informazioni che non vogliono essere esaustive (sarebbe pretenzioso e impossibile) ma stimolanti.
“Viaggio nella Musica” vi indica la porta attraverso la quale si accede alle informazioni. Sta a voi -se lo desiderate- fare il passo successivo, varcare la soglia ed entrare nel vivo di uno o più momenti storici, musicali, umani.
Nel percorso che, incontro dopo incontro, abbiamo affrontato con voi, quello che abbiamo voluto fare, attraverso il racconto analitico delle correnti e delle figure principali dell'Universo Musica (che oggi ci porterà dal Romanticismo al simbolismo, e dall'espressionismo all'avanguardia, evidenziando la nascita e l'affermazione di generi nuovi rispetto alla classica, come il jazz e il rock), è stato dimostrare che la musica, per quanto intangibile, immateriale e quindi fisicamente inafferrabile, è materia viva e per questa ragione vive dentro ogni essere umano, sin dalla preistoria.
E il destino della musica è quello di continuare a fungere da veicolo di sogni, bisogni ed emozioni.
Cambiano le modalità di composizione ed esecuzione, cambiano gli strumenti ed i luoghi di fruizione, cambiano i mercati e i committenti, cambia anche la musica e, proprio per questa sua capacità di anticipare o condensare l'evoluzione dello spirito umano, esisterà per sempre.

Ma cosa succederà in futuro?
Il mercato della musica soccomberà a causa dello scambio gratuito (e inarrestabile) di musica on line? Nasceranno nuovi modi di commercializzare la musica?
La musica tornerà ad essere un fenomeno prevalentemente “live”?
Dischi, CD e DVD diventeranno oggetti d'antiquariato per raffinati collezionisti?

Il dibattito è aperto. E abbiamo avuto modo di parlarne l'8 Aprile con discografici, editori ed esperti, infatti in questa terza e ultima puntata del nostro Viaggio nella Musica incontriamo cinque professionisti che hanno deciso di dedicare la loro vita alla musica. Chi da artista, come Giorgio Albiani, chi con la professione di giornalista e responsabile di testate come Roberto Rossi Gandolfi e Ezio Guaitamacchi, chi in qualità di addetto ai lavori e ideatore di nuove modalità di diffusione, fruizione, commercializzazione della musica, come Paolo Maiorino, Fabrizio Rioda, Marco Conforti. Anche Elena Rapisardi, project manager, ha dato il suo contributo al dibattito parlando dei costi della musica, un argomento assai scottante quanto interessante.


Ma prima di passare alla terza parte della nostra storia della musica in breve, presentiamo i vincitori dei cinque biglietti omaggio + backstage per il concerto del LIGA!

Complimenti a "quelli tra palco e realtà"...

ACCIAI GINO - lavoratore

BIGIARINI ANDREA - studente Liceo Classico Galilei

GALASTRI COSTANZA - studente Liceo Scientifico Galilei

NORCINI LORENZO - studente Liceo Scientifico Galilei

ROMANO LEONARDO - studente Liceo Scientifico Galilei

Se lo sono proprio meritato!

Infatti la sorte ha premiato Gino, Andrea, Costanza, Lorenzo e Leonardo che hanno partecipato a tutti e tre gli incontri. Il loro viaggio nella musica non finisce quindi qui, ma prosegue alla volta di Bologna: "Il giorno dei giorni" sarà l'8 giugno !!

Per sapere come è andata e vedere le immagini del concerto di Bologna vai alla seconda pagina successiva


UNA STORIA DELLA MUSICA IN BREVE

Terza Parte

1. Ricominciare dal cuore: Robert Schumann
Il romanticismo gentile, soffuso, tormentato e velatamente inconsapevole di Franz Schubert trova un contraltare roboante in Robert Schumann (1810-1856), una figura particolare che alla mansione/funzione consueta dell'artista (cioè compositore ed esecutore/interprete dei brani) abbina quella di giornalista e critico musicale, sarcastico e intransigente. Nel suo bersaglio finiscono le menti conservatrici, poco inclini ad accettare sviluppi sorprendenti ed evoluzioni inaspettate in ambito musicale. In realtà quella del compositore/opinionista Schumann era una personalità tripla: il guerriero indomito, l'intellettuale malinconico e il musicista raffinato. La somma delle tre dà vita ad un'opera che comprende, ad esempio, dei Lieder consistenti in brevi pezzi pianistici che realizzano compiutamente un nuovo ideale della forma espressiva romantica basato sull'intuizione e sulla fantasia: è il dominio del sentimento, della passione, del cuore. È poesia pura, quella di Schumann, pienamente calata nello spirito di un'epoca e, quindi, tesa ad emanciparsi da schemi precostituiti. Ma, proprio perchè stimolata dal fuoco interiore e dall'impulsività, è calda e travolgente nell'incipit e, per contro, fredda e algida negli svolgimenti (un esempio di ciò è il Phantasiestück op.12).

2. Mendelssohn, vita da star
È struggente leggere le biografie di quegli artisti che, nel corso della loro esistenza, produssero capolavori sommi a dispetto di un'esistenza fatta di stenti, vessazioni, dolori, tormenti.
Per contro, la breve vita (1809-1847) di Felix Mendelssohn-Bartoldy non fu segnata dai drammi. Tutt'altro. Fu pianista acclamato e, in seguito, direttore d'orchestra osannato dal pubblico e dalla critica. Viaggiò molto, attraversando l'Europa e facendo tesoro di innumerevoli esperienze artistiche, culturali ed umane. Ottenne fama, ricchezza, fortuna e ampi riconoscimenti. Lo spirito romantico era centrale nell'opera di Mendelssohn, ma in un'accezione antitetica rispetto a quella di Schumann, in quanto caratterizzato da elementi profondamente differenti: serenità, senso della misura, compostezza, limpidezza, pace interiore. Il tutto canalizzato in una vena di amabile consuetudine, che consentiva all'ascoltatore di trovare continuamente appigli per riconoscere una forma musicale e, immediatamente dopo, per scorgervi i tratti innovativi che la spostavano dal presente al futuro. Tra le più belle composizioni di Mendelssohn ci sono sicuramente le celebri ouvertures, come Ebridi e la Grotta di Fingal (scritte tra il 1830 e il 1832), e il Concerto per violino in mi minore (1845).

3. Il Romantico perfetto: Fryderyk Chopin
Il polacco Chopin rappresenta un terzo aspetto del romanticismo musicale. Se Schumann era irrequieto e ribelle, e Mendelssohn -invece- equilibrato e popolare, Chopin si ripiegava su se stesso per confrontarsi con i propri fantasmi. Concentrato sulla propria espressività e sulla propria arte, e supportato da un genio non comune, Chopin distanziò il passato con audace, spontanea (ed inevitabile) originalità. Il risultato fu una musica che sembrava nascere dal nulla, che non aveva antenati o precedenti artistici. Ed era stilisticamente perfetta, profondamente poetica, pervasa da un sottile malessere esistenziale che permeava di toni torbidi l'opera del compositore. I paesaggi sonori dei Notturni sono una discesa nella psiche, nell'animo che ha sostituito l'arte alla vita, che teme la realtà e guarda o meglio anela al sogno. Con Chopin ha inizio anche il nazionalismo musicale, basato su un desiderio di semplicità che riparte dalla riscoperta della tradizione popolare e si riferisce alle origini -geograficamente contestualizzate- della musica. Mazurche e Polacche rivelano la componente nostalgica dell'autore ma anche il suo stile inguaribilmente romantico, che lo guida alla ricerca di un sentimento patriottico, sì, ma idealizzato e, nella pratica, tanto sentito quanto lontano e irraggiungibile.

4. L’eclettico Wagner
Nell'opera di Richard Wagner (1813 – 1883) confluiscono tutti gli elementi del Romanticismo musicale sino ad ora esaminati, con una mirabile fusione di parola e suono che crea un netto spartiacque tra il passato ed il futuro. Gli elementi basilari dell'opera wagneriana comprendono un'inedita e sconcertante concezione armonica del discorso musicale, abbinata ad una resa sonora del puro animo romantico teso verso l'irraggiungibile o l'ineffabile, grazie all'impiego di un linguaggio che vuole ottenere, con la musica, qualcosa di profondo, tangibile ed evocativo. Per questa ragione Wagner non punta mai alla voce sola, al singolo strumento, ma al miscuglio. E all'attività di compositore (autodidatta) si affianca quella di teorico e divulgatore: il pensiero wagneriano non è contenuto esclusivamente nell'opera omnia musicale, ma anche in un'imponente produzione letteraria (“Arte e rivoluzione” del 1849, “L'opera d'arte dell'avvenire” del 1850, “La mia vita” autobiografia uscita postuma nel 1911). Anche per questo la figura di Wagner fu determinante su tutta la cultura dell'Ottocento e del Novecento. La sua esperienza estetica ebbe notevole peso su personalità musicali come Gustav Mahler, Richard Strauss e Arnold Schöenberg, ed anche su scrittori come Charles Baudelaire, Paul Verlaine e Friedrick Nietzsche (dapprima fervido sostenitore del genio wagneriano e poi aspro detrattore). Tra le opere musicali di maggior rilievo,Il Vascello Fantasma, l'Oro del Reno, la Walkiria, Parsifal.

5. Claude Debussy, un impressionista e il suo pentagramma
La seconda metà dell'Ottocento vede -da un punto di vista sociale e politico- l'inasprirsi di crisi, contraddizioni e contrasti a livello mondiale. La tradizione sinfonica classico-romantica arriva a conclusione con il lavoro di Gustav Mahler mentre il linguaggio coniato da Wagner viene portato alle estreme conseguenze dal suo epigono Richard Strauss, la cui opera è caratterizzata da epicità, enfasi, potenza, esotismo.
Il nuovo gusto musicale impressionista viene sviluppato in Francia da Claude Debussy (1862 – 1918), nel cui stile fortemente innovativo sono evidenti l'inedita concezione formale, la varietà timbrica, la tendenza a superare le funzioni costruttive e dialettiche dell'armonia tradizionale. È un caso isolato quello di Debussy, musicalmente parlando, che trova invece forti corrispondenze nelle poetiche dell'impressionismo e del simbolismo in campo pittorico e letterario. Debussy ha un'unica, importante esperienza in ambito teatrale con la trasposizione in musica di Pelléas et Mélisande di M. Maeterlick (1893), opera che scandalizza l'opinione pubblica per il suo rifiuto delle convenzioni del melodramma tradizionale e di quelle del dramma wagneriano.
Tra i lavori prettamente musicali, invece, Trois Nocturnes per orchestra (1897-1899), La mer (1903-1905), Images (1906-1912).

6. Le origini della world music: Igor Stravinskij
Ed eccoci al cospetto di uno dei massimi artefici della musica contemporanea, Igor Stravinskij (1882-1971). Allievo di Rimskij Korsakov, musicista dal grande talento, sin dalla gioventù mostra doti non comuni in ambito musicale, in virtù di una capacità di composizione solida ed inossidabile, di un dinamismo potente, di una speciale attitudine nel riuscire a rendere vivaci ed esplosivi i colori orchestrali.
Il balletto L'Oiseau de feu (1909) è un'opera ora delicata e toccante, ora travolgente e fiammeggiante. Il successivo Petruška (1911-1912) è caratterizzato da un'incalcolabile ricchezza di intuizioni ed innovazioni, che surclassano ogni opera coeva e balzano -da un punto di vista musicale- decenni in avanti. Per quanto criticata alla prima esecuzione dal vivo, Le Sacre du Primtemps (1912-1913) rappresenta un nuovo, sconcertante sviluppo che mette un freno agli estremismi tesi verso modernità rivoluzionarie. Stravinskij, infatti, guarda alle profonde radici dell'anima musicale russa, le prende in esame, decostruendole e riducendole ai minimi termini, per poi riassemblarle con lo spirito del proprio tempo e aprendo una nuova via espressiva. Non si tratta di una semplice rilettura della tradizione, bensì di un processo -anche sofferto e travagliato- di immersione totale, teso alla conquista di un equilibro personale all'interno dell'universo musicale di ogni tempo.

7. Il novecento: da Stockhausen a Cage
Il Novecento, così, viene ad essere un momento di estrema transizione verso forme musicali e modalità di esecuzione inimmaginabili. Per sintetizzare i livelli raggiunti partiamo esaminando due figure. La prima è quella del tedesco Karlheinz Stockhausen (1928), significativo esponente della musica d'avanguardia che nella propria opera scardina regole e strutture, dando voce agli oggetti (ad esempio i campanelli delle biciclette) e creando spartiti dove le note lasciano lo spazio ai segni o ai simboli. In Stockhausen la composizione diviene attività conoscitiva e per questa ragione, molto più vicina al raggiungimento della consapevolezza interiore che non all'estasi artistica.
Discorso per alcuni versi simile nella seconda figura presa in esame, quella dello statunitense John Cage (1912 – 1992) il quale non si limita a comporre ma, addirittura, arriva a manomettere gli strumenti musicali tradizionali per ottenere effetti inimmaginabili: il suo pianoforte preparato vede -tra le corde dello strumento- una grande quantità di gomme, chiodi, pezzi di cartone e così via. Grande merito di Cage è quello di riuscire a dimostrare che la musica è, prima di tutto, un processo vitale e fluente di creatività. Concepisce infatti l'opera aperta, un momento -basato su uno schema di scrittura codificato- nel quale si punta a stimolare le potenzialità dell'interprete e non a vincolarle. Il lavoro di Cage ha incontrato non pochi detrattori, ma resta un punto di riferimento per tutta l'arte musicale del Novecento.

8. Music is The Best: Frank Zappa
Il nostro viaggio nella Storia dei suoni e delle composizioni si chiude con la figura di Frank Zappa (1940 – 1993), personalità emblematica e profondamente influente che, nonostante la catalogazione “rock” è in realtà profondamene legata a tutta la musica, senza preclusioni di genere. Nella musica di Zappa l'ascoltatore attento potrà trovare sofisticati (e, talvolta, esilaranti ma sempre rispettosi e rispettabili) riferimenti alla ricerca etnica di Igor Stravinskij, alle collisioni orchestrali di Charles Ives, alle partiture per grandi spazi di Aaron Copland, alle sperimentazioni di Edgar Varése ed Anton von Webern, alle esperienze atonali di Arnold Schöenberg, alle colonne sonore di film, telefilm e cartoni animati, per non parlare di frequenti inclusioni di elementi jazzistici (dallo swing al free, da Miles Davis a Eric Dolphy a Ornette Coleman), blues e, naturalmente, rock'n'roll. Il tutto condito, organizzato, orchestrato con una sensibilità fuori dal comune, che mira prima di tutto a mantenere vitale, stimolante e slanciata verso il futuro la musica. Da un punto di vista orchestrale gli album di Zappa più importanti sono Orchestral Favourites (1978), Perfect Stranger (direttore: Paul Boulez, 1984), London BBC Orchestra (1984), Yellow Shark (con l'Ensemble Modern, 1992). Il modo migliore per descrivere questo compositore è usare un verso tratto dal testo di Packard Goose, brano scritto da Zappa e contenuto nel divertente (e scollacciato) album Joe's Garage del 1979: “Informazione non è conoscenza, conoscenza non è saggezza, saggezza non è verità, verità non è bellezza, bellezza non è amore, amore non è musica. La musica è il meglio.”

 

SENTIRE E ASCOLTARE LA MUSICA
Lo sviluppo della musica dipende più di qualsiasi altro dalla tecnica
(Arnold Schöenberg)

1. Le origini della fonografia
Esistono profonde interrelazioni tra la musica e le modalità di ascolto della stessa. Prendiamo in esame gli strumenti che hanno reso ripetibile, condivisibile e trasportabile l'esperienza musicale.

2. Il vinile
Il fonografo viene inventato da Thomas A. Edison, come strumento di supporto alle attività di dettatura in ufficio. Nel 1877 viene registrato “Hello”, il primo brano della storia, inciso su una sottile lamina di stagno. Il suono è primordiale e sconfortante, ma stimola una serie di ricerche che conducono alla realizzazione, nel 1902, del 78 giri in vinile (PVC), materiale plastico molto maneggevole che riproduce magnificamente -per i criteri dell'epoca- il suono. La diffusione del grammofono (creato e commercializzato dalla United States Grammphone Company nel 1897) cambia radicalmente le abitudini, prima della borghesia e via via anche delle fasce popolari più ampie: la musica può essere ascoltata ovunque e può diventare, per la prima volta, un elemento integrante della vita domestica, realizzando una separazione emotiva dalle difficoltà (e dai rumori) del mondo esterno.

3. La radio e il Juke box
A partire dagli anni '20 si diffonde una nuova modalità di ascolto: quello radiofonico. Strumento di diffusione sonora affascinante e versatile (che tutt'oggi è profondamente amato), la radio fornisce una nuova possibilità, quella di ascolto casuale, mirato all'intrattenimento e all'informazione. A questo punto perchè acquistare dischi, se la radio li fa sentire? si chiede molta gente. E così l'industria discografica accusa la prima, grandissima crisi, ma viene tratta in salvo da una specie di armadio musicale a pagamento (monetine o gettoni): il juke box, che riscatta dal prematuro oblio il vinile e lo porta nuovamente alla ribalta: chi non possiede un grammofono o giradischi e chi non dispone di una radio può operare la propria, personale selezione musicale al juke box e rendere partecipi le persone presenti (tipicamente in luoghi di ritrovo come bar e pub).

4. La payola
Questo termine esotico indica una pratica illecita e famigerata: la programmazione radiofonica dietro compenso da parte delle case discografiche. Il disc jockey (ovvero chi mette musica alla radio e decide la programmazione musicale), in sostanza, non sceglie in base al proprio gusto oppure contestualmente ad un argomento o tema da sviluppare, ma seguendo precise direttive dell'industria della musica.

5. Il long playing e il 45 giri
Durante la Seconda Guerra Mondiale, l'esigenza di avere supporti registrati di lunga durata (da utilizzare per lo spionaggio politico) porta ad una repentina accellerazione nella ricerca fonografica. Nasce il cosiddetto microsolco, o 33 giri, un nuovo formato che permette la registrazione di ben 30 minuti -continuati- di audio. L'etichetta discografica della Columbia Company perfeziona il formato e lo usa per commercializzare la musica classica. Un'altra compagnia, la RCA, punta invece su un formato di consumo più veloce, il 45 giri. Se il 33 giri è destinato ad un pubblico adulto (e con gusti sofisticati) il 45 invece guarda con interesse ai giovani, più sensibili alla musica di moda, pronta al consumo e da ascoltare in fretta.
I 33 giri per il pubblico giovane -in questa fase- hanno il compito di raccogliere un po' di 45 giri, niente di più. Solo negli anni Sessanta la mentalità cambia, grazie agli album Blonde On Blonde di Bob Dylan (1966) e Freak Out! di Frank Zappa e le Mothers of Invention (primo album doppio della Storia, anch'esso del 1966): non più raccolte di singoli ma canzoni inedite, che diventano un prodotto artistico concepito con una continuità tematica ben precisa.

6. Il nastro magnetico
Nasce a ridosso degli anni '40 grazie alla ricerca dei laboratori hitleriani nei quali si mette a punto il primo German Magnetophon. Al termine del secondo conflitto mondiale l'esercito americano si appropria dell'invenzione (una specie di “bottino di guerra”). Introdotto all'interno dell'industria discografica ne cambia per sempre i connotati, divenendo il supporto sul quale vengono effettuate le registrazioni in sala d'incisione. Grazie alla possibilità di contenere più tracce contemporanee (e per questo viene infatti definito multi-traccia) consente di lavorare su uno stesso brano a più riprese. Nasce una nuova figura professionale, quella del produttore, ovvero chi coordina il processo di creazione e realizzazione della musica suonata da un artista o da un gruppo musicale. Nasce il concetto di sound: anche il suono di una canzone (o di un album) diventa di basilare importanza, al pari della qualità artistica della composizione e dell'esecuzione. Di album in album si sviluppa la pratica della sovraincisione, che negli anni '60 raggiunge l'apice nella canzone A day in the life, contenuta nel capolavoro dei Beatles Sgt. Pepper's Lonely Heart Club Band. Il produttore del quartetto di Liverpool (considerato il quinto beatles) è il geniale George Martin.
Negli anni '70 inizia a diffondersi la musicassetta, piccola e comoda, che permette di registrare (innumerevoli volte) fino a 120 minuti di musica. Temuta dall'industria discografica, non crea in realtà particolari problemi: i dischi in vinile continuano a vendere bene.

7. Il walkman
Chi abita a Tokyo sa che potrebbe trovarsi ad affrontare anche 2 o 3 ore di metropolitana al giorno per andare a scuola o in ufficio. Per alleviare il tedio dovuto alle lunghe e ripetitive trasferte di milioni di studenti o lavoratori, Masuru Ikanu e Akio Morita inventano (sul finire degli anni '70) un minuscolo riproduttore di cassette che permette di portare comodamente “a spasso” la musica, ascoltandola con delle audio-cuffiette. Nasce il walkman, brevettato da SONY, che in dieci anni ne vende ben 50 milioni di esemplari. Attraverso questo strumento di ascolto la musica entra a far parte della vita quotidiana, ne diventa il commento durante passeggiate, attese, piccoli spostamenti. Ma non consente la condivisione, bensì porta l'ascoltatore ad una sorta di isolamento continuativo che esclude o rifiuta legami con il mondo circostante.

8. Il compact disc e il digitale
Negli anni '80 arriva sul mercato il Compact Disc (CD), un formato rivoluzionario per qualità e resa acustica.
È un piccolo disco di policarbonato, del diametro di 12 cm, che può contenere quasi 80 minuti di musica. La sua lettura avviene mediante un fascio di luce che evita per sempre l'usura del disco dovuto all'attrito della puntina (come avveniva, invece, nel giradischi). In pochi anni il CD scalza completamente il vinile. Si realizza un fenomeno parzialmente inaspettato: le fasce di età adulta iniziano a ricomprare le ristampe in CD dei vecchi dischi in vinile consumati dall'usura. L'esperienza di ascolto del CD è completamente diversa rispetto al vinile, visto che non c'è il contatto (la puntina sul disco) ma l'ingresso in un “enigmatico” lettore, e che è possibile creare un ascolto in ordine vario o casuale dei brani contenuti. Il CD, in quanto digitale, diventa in breve fruibile, cioè ascoltabile, anche attraverso il computer se dotato di lettore.
Negli anni '90 viene commercializzato il formato DVD (Digital Versatile Disc), che -grazie ad una capienza quasi decuplicata rispetto al CD- consente di immagazzinare molte ore di musica o un intero film, sempre in formato digitale.

9. Internet, MP3, masterizzatori
MP3 è un algoritmo di compressione dei dati musicali dieci volte più leggero (cioè meno ingombrante da un punto di vista di occupazione digitale) del formato contenuto nel CD. Con i software peer to peer diventa possibile mettere a disposizione, tramite la connessione Internet, i brani musicali contenuti sul proprio computer e, a propria volta, disporre di brani altrui. Questa pratica di scambio (gratuito) assesta un colpo drammatico alle varie case discografiche, che vedono crollare le vendite. Dopo una resistenza dissennata e controproducente, l'industria discografica inizia a pensare a possibili soluzioni, ad esempio la nascita di etichette digitali e la vendita di singoli brani via web.

Sentire e ascoltare la musica: considerazioni finali
Cosa succederà in futuro?
Il mercato della musica soccomberà a causa dello scambio gratuito (e inarrestabile) di musica on line? Nasceranno nuovi modi di commercializzare la musica?
La musica tornerà ad essere un fenomeno prevalentemente “live”?
Dischi, CD e DVD diventeranno oggetti d'antiquariato per raffinati collezionisti?

 

IL MERCATO DELLA MUSICA

La parola ai protagonisti: Paolo Maiorino, Roberto Rossi Gandolfi, Fabrizio Rioda, Ezio Guaitamacchi, Giorgio Albiani, Marco Conforti, Elena Rapisardi

Ognuno di loro traccia un quadro preciso e illuminante del settore, partendo dal proprio punto di osservazione ed estendendo la visuale sino ad includere elementi apparentemente distanti ma, in verità, importantissimi. Sei interviste, quindi, di spessore, che ci forniscono informazioni nuove e, inoltre, ci mostrano che tanti professionisti arrivano dalla “gavetta”: ce l'hanno fatta solo grazie alla qualità del loro impegno e del loro lavoro .

 

> Solo se un disco entra nel cuore della gente diventerà un prodotto di successo

Intervista a Paolo Maiorino

Paolo Maiorino è il capo della promozione dell’etichetta Sony BMG. Nel corso della sua carriera ha lavorato con artisti di primo piano del panorama italiano e nazionale, contribuendo attivamente al loro successo. E pensare che voleva fare il giornalista!

Cosa facevi prima di entrare nel mondo della discografia?
“Nel 1987 mi diplomai in Ragioneria e decisi di partire per gli Stati Uniti: mi iscrissi alla facoltà di giornalismo dell’Indiana. Mi laureai in music Business nel 1989. Nel frattempo avevo iniziato a collaborare con la rivista “Chitarre”: cercavano un esperto di hard-rock e io capitai al momento giusto. In seguito lavorai alla rivista “Metal Shock” per la quale, tra il 1987 e il 1990, scrissi l’80% dei testi. Scrissi anche per “Tuttifrutti” e “Flash”. Negli stessi anni cominciarono delle collaborazioni con “Video Music”, prima come corrispondente dall’America e poi come inviato. Dal 1990 tornai in pianta stabile in Italia e, oltre a mantenere i vari rapporti di collaborazione appena citati, iniziai a lavorare anche per Radio RAI.”

Alla RAI di cosa ti occupavi?
“Non ci crederai ma, a quel tempo, la RAI non disponeva di una persona che parlasse fluentemente l’inglese. E mancava anche una figura che gestisse professionalmente tutto ciò che riguardava i concerti. Diventai il loro consulente per i rapporti internazionali e poi mi occupai della gestione contrattuale delle esibizioni dal vivo. Ad esempio gestii la firma e gli aspetti organizzativi legati alla
messa in onda del Freddie Mercury Tribute che si tenne a Londra nel 1992.”

Insomma, eri un giornalista lanciatissimo!
“Proprio così. Ma presi una decisione che mi portò su una strada nuova: entrai nel mondo della discografia. In realtà in precedenza avevo già avuto un paio di colloqui, ma gli esiti non erano stati positivi. Probabilmente non ero convinto fino in fondo di voler abbandonare il giornalismo. Nel frattempo avevo cambiato idea e così, nel 1992, entrai a far parte della scuderia EMI, a Roma. Lavorai lì per 3 anni, gestendo le etichette distribuite, che comprendevano artisti come Queen, Pink Floyd, Marillion, Stadio.”

Dopo l’esperienza EMI dove migrasti?
“Alla Sony, vestendo la carica di responsabile Columbia per Roma e centro-sud Italia. Furono anni straordinari per la discografia, grazie ad artisti come Maria Carey, Michael Bolton, Aerosmith. In quel periodo mi avvicinai molto al mercato italiano, lavorando con De Gregori, Fossati, Mannoia, Bluevertigo, Paola e Chiara. La svolta avvenne nel 1997, quando mi trasferii a Milano, come capo della promozione della Columbia Record per Sony.”

In quel periodo continuavi ad occuparti di artisti stranieri ed italiani?
“Ho scelto di lavorare con il prodotto “local”, ovvero italiano. L’ho fatto perchè mi consentiva di avere una visibilità a 360° sul lavoro degli artisti, che vedevo nascere, crescere, svilupparsi e, di conseguenza, potevo anche lavorare in prospettiva sul disco successivo. Nel 2000 passai da Sony a BMG, come capo della promozione Ricordi, un’etichetta storica caduta un po’ in disgrazia. BMG voleva rilanciare Ricordi e trasformarla in una nuova Virgin. Fece una campagna assunzioni molto mirata e rilanciò il proprio catalogo, con una rosa di importanti artisti italiani e internazionali. Io sono un grande appassionato di rock anni ’60 e ’70 e, in futuro, mi piacerebbe lavorare su un catalogo che comprenda e valorizzi questo importante periodo della storia della musica contemporanea.”

Come si promuove un artista?
“Dipende dall’artista, cioè se è un emergente che va “creato” dal nulla oppure se si tratta di un nome da rilanciare. Facciamo qualche esempio. Quando ascoltammo per la prima volta l’audizione di Paola & Chiara restammo colpiti dalle loro capacità, ma ci rendemmo conto che il loro talento andava amalgamato e gestito in modo opportuno, in modo da valorizzarlo evitando pregiudizi o detrazioni a priori. Le Vibrazioni rappresentarono un altro caso particolare: il feedback del mercato era ottimo; loro, in modo non convenzionale, non erano emersi grazie ad un singolo di successo, ma grazie ad un video.
Arrivarono nel momento giusto perchè erano quello che voleva la gente, un gruppo a metà tra pop e rock e che avesse la capacità di scrivere belle canzoni, che –alla fine dei conti- sono l’unico modo per affermarsi. Il lavoro promozionale dipende sempre dalla reale capacità degli artisti e dal loro talento.”

È importante lavorare, oltre che sui contenuti, anche sui tempi promozionali?
“È basilare. Prendi Gavin De Graw. Negli Stati Uniti uscì nel 2003, ma noi abbiamo aspettato le ultime settimane del 2005 per proporlo in Italia, attendendo che si esaurisse l’effetto del lancio di big come Santana ed Eurythmics, che avrebbero schiacciato De Graw. Quando abbiamo presentato “Charriot”, il primo singolo tratto dall’album di esordio di questo artista, alle radio è piaciuto subito e così il successo è arrivato, coronato dal primo posto in classifica per ben due mesi. Se avessimo sbagliato i tempi sicuramente il risultato sarebbe stato meno rilevante.”

C’è un momento dell’anno in cui il mercato è particolarmente fermo?
“Il periodo a ridosso del Natale, diciamo dal 10 dicembre in poi.”

Ma come, non è il momento in cui –tra regali e regalini- si registrano gli incassi maggiori?
“Sì, ma gli ordini dei negozianti sono oramai chiusi. Le settimane che vanno dal 10 dicembre al 15 gennaio sono un periodo morto. Tornando al discorso sulle tempistiche, sapersi collocare in questo periodo può portare a risultati sorprendenti. Infatti il caso di De Graw, in questo senso, è esemplare. Adesso lui è al lavoro sul suo nuovo album e confidiamo che possa darci molte soddisfazioni.”

Quali sono le regole operative del buon discografico?
“Innanzitutto deve capire subito a chi è destinato un certo prodotto. Se sbagli target hai fallito. Individuare i destinatari finali non significa pilotare il lavoro dell’artista o manipolare i gusti del pubblico. Promuovere significa anche stabilire le strategie in base alle potenzialità del disco e dell’artista, fissando dei punti precisi.”

Quali sono, oggi, i parametri che permettono di dire: questo è un disco di successo?
“È lo stesso di sempre: le emozioni che la musica sa suscitare. Solo se un disco entra nel cuore della gente diventerà un prodotto di successo. Ci sono tantissimi artisti che sanno scrivere belle canzoni ma che non hanno potenziale commerciale e quindi, per forza di cose, su di loro non si investe. È necessario ricordare una cosa fondamentale: le case discografiche non sono istituzioni benefiche, lavorano sì per la cultura della musica ma devono fare scelte commerciali ben precise che garantiscano la sopravvivenza dell’azienda. È importante dare un’opportunità ad artisti di rottura e innovativi come Ivan Segreto, L’aura o Morgan che riprende in mano l’opera di De André, ma non va dimenticato che hanno un’incidenza relativa sul mercato. Come discografico non sento la responsabilità primaria di promuovere un prodotto di qualità artistica elevatissima: lavoro anche per dare alla gente quello che vuole. E se questo significa proporre un album che non è ai vertici della creatività, lo faccio.”

Quindi una casa discografica deve operare con nomi che diano delle garanzie, non è così?
“Sì e se questo consente di destinare una parte dei proventi agli artisti di nicchia che meritano attenzione e dedizione, lo faremo. Prendi i Delta V. Erano il nostro fiore all’occhiello. Pur non totalizzando incassi o vendite significativi, avevano contraddistinto una eccellente qualità della ricerca musicale. Adesso sono sotto contratto con la EMI, ma auguro loro ugualmente tutte le fortune, perchè c’è bisogno anche di loro nel panorama musicale internazionale, proprio per il fatto che non propongono musica identica a quella che, normalmente, inflaziona il nostro mercato.”

Come sta il mercato adesso?
“È in profonda e instabile crisi. Il 2005 ha vissuto l'ennesimo ridimensionamento dal punto di vista delle vendite. A settembre di solito, dopo la stasi estiva, il mercato rinasce, mentre l’autunno dell’anno scorso ha visto un ulteriore calo. Abbiamo toccato il minimo storico. La sorpresa è arrivata a dicembre: il mercato non si è fermato come al solito, ma ha continuato a crescere sino a fine gennaio.”

Qual è l’impatto della pirateria e del download illegale?
“L’effetto è devastante. Per le giovani generazioni scaricare musica dai siti peer to peer è una cosa scontata. Ma questo avrà ripercussioni gravissime, che porteranno al ridimensionamento del parco artisti. I contratti non verranno rinnovati, non ci saranno più investimenti a medio/lungo termine: o fai subito un fatturato decente o sei fuori. Credo che il download andrebbe legiferato in modo diverso. L’etichetta H2O promossa da SonyBMG è una soluzione possibile: vendere canzoni (il vecchio concetto dei singoli) via internet. L'artista fa una serie di singoli e, se ha costante successo allora, la realizzazione di un album è giustificata e si procede.”

Qual è l’aspetto che ti piace di più del tuo lavoro?
“Il saper individuare una buona canzone ed il riuscire a presentarla in modo adeguato ai nostri interlocutori, ovvero i media (e non il pubblico). E il rendersi conto che, come ti dicevo prima, il compito della musica è suscitare emozioni, prima di tutto in noi discografici che poi, attraverso il nostro lavoro, trasferiamo queste emozioni alla gente.”

> Ottieni sempre dei risultati se il tuo lavoro ti appassiona <

Intervista a Roberto Gandolfi
Roberto Rossi Gandolfi è il direttore di Tribe, Classic Voice e Opera, tre magazine che -mese dopo mese- esplorano il mondo della musica, informando un pubblico ampio e diversificato. Tribe si occupa di musica, costume e attualità, ed è diretto ad un pubblico giovane. Classic Voice e Opera, invece, sono dedicate o rivolte? interamente al mondo della musica colta e coprono un periodo artistico che va dall'antichità alle avanguardie contemporanee. Roberto ci ha raccontato la sua storia di critico musicale, inviato e quindi direttore editoriale, mettendo in evidenza come e quanto sono cambiati i gusti, le esigenze e l'umore del pubblico dei lettori di riviste dedicate alla musica, agli autori, agli interpreti.

Hai iniziato come giornalista?
“Non proprio. Ho esordito a Bologna, dove sono nato, in una radio che cambiò nome più di una volta -BBC Punto Radio, BBC Bologna, ecc-, non avevo ancora compiuto 18 anni. Nel gruppo di lavoro c'erano anche Vasco Rossi, Maurizio Solieri, Red Ronnie e vari altri personaggi...qualcuno -come l'amico Massimino- ci ha lasciati, qualcuno è finito chissà dove.”

Cosa succede dopo l'esperienza radiofonica?
“La passione e la conoscenza della musica erano tali che presi una decisione: questo mondo doveva far parte della mia vita e del mio percorso di vita professionale, forte di una solida conoscenza tecnica relativa a buona parte della musica che usciva. Uscito dalla radio feci un provino a L'Unità e venni assunto. Le persone che valutarono le mie competenze erano attente, equilibrate, capaci e lavoravano in un ambiente privo della competitività che si sarebbe sviluppata negli anni a venire. Si fidarono di me e mi diedero libertà di azione, cioè di scrittura: divenni il critico musicale de L'Unità.Il mio percorso si sviluppò in seguito sui maggiori quotidiani nazionali, passando per La Repubblica e arrivando, in epoche recenti, al “Messaggero”, testata per la quale sono stato a lungo il corrispondente da Milano per quanto riguarda la rubrica cultura e spettacolo.”

Lavoravi anche per i magazine musicali?
“Iniziai di lì a poco. Nei primi anni della mia carriera, infatti, compresi che, se volevo ampliare il mio raggio d'azione ai periodici, dovevo studiare quello che producevano i maggiori gruppi editoriali. I due giornali più importanti erano Rockstar e Ciao 2001. Il primo era raffinato e selettivo, con un pubblico più ristretto. Il secondo aveva un bacino di utenza molto più ampio. Chiamai entrambi e mi proposi.”

Qual era l'oggetto della tua proposta?
“Interviste e servizi realizzati negli Stati Uniti, perchè nel frattempo ero volato oltreoceano e, grazie ad un pass de L'Unità -un pass che, in realtà, non mi dava alcun diritto, ma non se ne accorse nessuno!- riuscii ad intrufolarmi ad una serie di concerti, facendo molte interviste. Le proposi ai magazine sopra citati. “Rockstar” mi disse un vago mah, vedremo, le faremo sapere.... Maria Laura Giulietti, caporedattrice di “Ciao 2001”, invece, fu molto più pragmatica e diretta. Mi disse: non perdiamo tempo, ti do sette giorni per scrivere un pezzo di lunghezza tot...mandacelo e, se va bene, ti richiamiamo.”

Sembra un film. C'è anche il lieto fine?
“Sì: mi richiamarono. Maria Laura, che era anche conduttrice radiofonica e produttrice musicale affermata, mi cercò senza fortuna per 3 giorni. Quando riuscì a parlare con me mi redarguì: Allora! Sono tre giorni che ti cerco! Dov'eri?!? Sai, all'epoca non c'erano fax o cellulari: c'era mia sorella che rispondeva al telefono e non mi passava le telefonate perchè ero sempre in giro. Il rapporto professionale e umano con Maria Grazia continua tutt'ora. Da lei ho imparato molte cose, con estremo rigore e con la spinta a superare sempre i miei limiti.”

Lavoravi sempre in Italia?
“Per poco, perchè decisi di trasferirmi negli Stati Uniti e feci il corrispondente da lì. Dopo alcuni anni diventai inviato e cominciai a viaggiare senza sosta, andando dappertutto. Ciao 2001 era un settimanale di enorme successo, arrivò a vendere ben 370.000 copie a settimana, tirature che solo Sorrisi e Canzoni TV riuscì a raggiungere nei suoi anni migliori. E non esagero se ti dico che c'era un'attenzione spasmodica nei confronti di quello che scrivevamo, eravamo delle piccole star del giornalismo musicale. Giravo come una trottola. Era faticoso ma estremamente appagante. Nell'evoluzione della mia carriera, dopo anni da inviato arrivai a dirigere il mio primo giornale.”

Sia Ciao2001 che Rockstar pubblicavano lunghi articoli sulle band musicali più importanti del panorama nazionale ed internazionale, dalla PFM ai Doobie Brothers. Evidentemente la gente voleva questo. Oggi il gusto del pubblico è cambiato?
“Completamente. Il giornalismo musicale del Ciao 2001 di Maria Grazia Giulietti era di approfondimento, molto vicino ai gusti popolari e, allo stesso tempo, di altissimo livello qualitativo. Vicino all'impostazione del celebre Rolling Stone, con meno pagine e, in più, rubriche di dialogo aperto con i lettori. I redattori di Rockstar avevano una mentalità più britannica, insomma scrivevano principalmente per loro stessi. Ma il dato fondamentale è che ai tempi (anni ‘'70 e '80) c'era un livello di attenzione, analisi e preparazione culturale legato alla musica molto più profondo e appassionato di oggi. Per strada vedevi gruppi di giovani nei pressi dei vari muretti che discutevano ore e ore di musica. Io vivevo a Bologna ma credo che a Milano, Roma o Firenze fosse la stessa cosa. Tu immagina, ad esempio, gli estimatori dei Genesis che detestavano (musicalmente, è ovvio) chi ascoltava Led Zeppelin o Who. E partivano le discussioni, interminabili. Ricordo che quando uscì Wish You Were Here si discusse per settimane intere sugli assoli di David Gilmour, arrivando a sezionarli uno per uno, nota per nota. C'era una passione nei confronti di questo mondo che oggi, purtroppo, non c'è più.”

Quali sono le ragioni secondo te?
“La passione è stata appiattita, affossata, annientata da un'offerta eccessiva e priva di contenuti. Nel migliore dei casi, fino a qualche anno fa, trovavi chi faceva bene del costume musicale e chi lo faceva male. Oggi, in Italia, solo testate come Rolling Stone propongono un format (all'americana) di approfondimento, ma quante riviste ci sono così? E non può essere altrimenti: le nuove generazioni non hanno più interesse a leggere otto pagine su una rockstar o su una band, perchè vivono con il telefono in mano, ascoltano la musica via telefono, navigano -molto spesso- con il telefono, giovcano con il telefono, scaricano la suoneria e copiano i dischi. E danno un valore della musica collegata alla gratuità del supporto, per tanti fattori che sarebbe lungo elencare.”

A cosa porta tutto questo?
“Ad un impoverimento, rispetto al quale le istituzioni hanno una colpa enorme. Pensa solo alla scuola italiana e a come è stata ridotta, pensa a come trattano la cultura. Anche l'atteggiamento passivo e disattento delle famiglie non è privo di colpe. E, purtroppo, anche noi giornalisti musicali abbiamo le nostre.”

Facciamo un salto indietro nel tempo di nove anni: come nacque l'idea di “Tribe”?
“Mi resi conto che non si poteva più fare del giornalismo musicale di approfondimento e, allo stesso tempo, avere delle tirature elevate. Questa convinzione ha decretato il successo della rivista. E, di fatto, oggi, c'è una deriva nella quale i punti di non ritorno sono già stati abbondantemente oltrepassati. I tempi di Ciao 2001 non torneranno più. Come ho già detto il caso di Rolling Stone -versione italiana- è unico, è un sassolino nel mare. La musica, oggi, viene principalmente vista come prodotto e gli artisti vengono valutati anche in base ai risultati che possono dare in edicola. Ciò nonostante Tribe non si affanna a mettere in copertina gli pseudo-artisti che nascono e muoiono in una stagione, anche se scelte di questo tipo -oggi come oggi- ti assicurano vendite.”

Come hai formato il team di lavoro di Tribe?
“Puntando a dare vita ad una redazione affiatata, di persone che vanno d'accordo, e che conoscono reciprocamente le potenzialità e le qualità del lavoro degli altri in squadra. Sono professionalmente amici e operano per dare vita ad un prodotto di qualità. Dal mio punto di vista il team deve avere libertà di azione, sì, ma deve andare nella direzione che ho deciso io. Potrei usare l'immagine figurata del padre-padrone. Sono una persona rigida nella disciplina, ma d'altra parte do spazio, lascio lavorare le persone. Anzi! Le spingo a buttarsi, ad osare perchè è dal confronto sul campo che si ottiene maturazione professionale e personale. Ricordando quello che mi hanno insegnato in gioventù: avere il coraggio delle proprie opinioni, esprimerle in modo chiaro e sicuro, prepararsi a difenderle se è necessario.”

È difficile, difficilissimo o impossibile scegliere sempre i collaboratori giusti?
“È molto difficile e, non fatico ad ammetterlo, anch'io ho fatto i miei errori. A volte ti trovi davanti una persona che ha un grande talento per la scrittura ma ha delle carenze personali che ne limitano la crescita professionale e questo comporta problemi di ordine vario. Il nostro mestiere è simile a quello del medico condotto di una volta, lo puoi fare solo se hai la passione, la voglia di impegnarti tanto e di essere sempre “in pista”. E, inoltre, bisogna mettere in conto che si matura con l'esperienza ed esclusivamente con l'esperienza. E il percorso di maturazione può essere lunghissimo. Ci puoi mettere anche 10 anni a diventare un ottimo giornalista o un ottimo caporedattore. E, attenzione, potresti non diventarlo mai. E, oltre all'esperienza, è necessaria una costante autocritica: non ti puoi sedere mai, devi continuare ad analizzare cosa hai fatto e come lo hai fatto, senza accontentarti mai, ma lavorando anche per fare un centimetro di avanzamento qualitativo in più rispetto a quello che avevi fatto prima. Se c'è la passione e l'amore per il lavoro che svolgi, riuscirai a superarti. Ottieni sempre dei risultati se il tuo lavoro ti appassiona.”

Tu come riesci a stare sempre vicino, anzi, dentro alla musica?
“Tribe interpreta le tendenze e coglie in anticipo le tendenze a venire. Questo è il suo scopo. Per capire ciò, il mio livello di attenzione sul mondo -musicale e non- del target di riferimento è elevatissimo. Per quanto riguarda la musica, ascolto tutto quello che esce. Dividendo l'ascolto. Con la pila di cd sul tavolo cerco subito di farmi un'idea, ascolto un paio di brani e mi dico: è in target con il nostro pubblico oppure no? E divido i cd da ascoltare in modo approfondito -e da far confluire nel magazine- da quelli da posticipare ad un secondo momento.”

Ma dove trovi il tempo di ascoltare musica?
“Di tanto in tanto -ma succede davvero raramente- mi prendo un giorno sabbatico, mi chiudo in ufficio e passo anche 10 ore ad ascoltare dischi su dischi. Di solito ricavo il tempo dove il tempo non c'è o quasi: in macchina, a casa, tra una riunione e l'altra.”

Quali sono i tuoi dischi preferiti tra quelli usciti negli ultimi mesi?
““American Idiot” dei Green Day, pieno di echi familiari (dal punk alle chitarre di Big Country e Alarm)perfettamente in target con Tribe. L'ultimo Vinicio Capossela e l'ultimo capolavoro di Donal Fagen, entrambi non in target con Tribe.”

Hai ricordi brutti, belli o buffi legati al tuo lavoro?
“Brutti no: amo profondamente questo lavoro, nonostante sia estremamente impegnativo e faticoso.
Ricordi belli, invece, ne ho tantissimi. Alcuni sono davvero curiosi. Una volta, ad esempio, ero a Los Angeles in compagnia di un discografico italiano che si chiamava Nico e di un altro collega. Incontrammo Lenny Kravitz e Slash (Guns'n'Roses) per intervistarli e fotografarli. Al termine decidemmo di andare a mangiare qualcosa. Non so come venne fuori il nome di “Spago”, che era il ristorante più esclusivo della città: frequentato principalmente da star, i comuni mortali potevano stare in lista d'attesa anche due anni prima di sedersi ad uno dei tavoli. Noi ci presentammo lì senza prenotazione. Parcheggiammo urtando il marciapiede come in “Get Shorty”. All'ingresso Nico disse: sono un manager, ho portato qui un paio di persone importanti che arrivano dall'Italia. Eravamo io e l'altro giornalista. Io ero vestito così: T-shirt nera con il logo del Jack Daniels, bermuda neri con teschi bianchi qua e là -in rilievo!-, scarpe Nike tipo barrio. Ci guardarono e, secondo me, pensarono: questi qui sono pazzi oppure sono delle star che non ho mai visto; meglio non rischiare, facciamoli accomodare. Da Spago la vicinanza al finestrone con vista Los Angeles è direttamente proporzionale a quanto sei famoso. Ci misero al finestrone, vicino a noi -giusto per fare due nomi- Jack Nicholson e Martin Scorsese. Stavamo per iniziare a mangiare quando ci viene portata al tavolo una bottiglia di champagne, gentilmente offerta da una tavolata di (è inutile fare giri di parole) mafiosi seduti lì nei pressi. Avevano scambiato il mio amico giornalista per Enrico Ghezzi. Poi uno dei loro consigliorri venne a salutarci. L'amico disse: guardate che io NON SONO Enrico Ghezzi, ecco, vedete la mia carta d'identità? Il consigliorri gli mise una mano sulla spalla e, con un sorriso complice e ammiccante, lo rassicurò: non si preoccupi, capisco molto bene quello che vuole dirmi, anche noi viaggiamo spesso sotto...falso nome. Nessuno ebbe il coraggio di insistere, mentre il resto del locale ci guardava come se fossimo i protagonisti de “Il padrino” “.

> L’obiettivo di “Jungle Sound” è quello di diventare un’azienda della musica a 360° <

Intervista a Fabrizio Rioda

Fabrizio Rioda è un musicista, un produttore discografico, un esperto di marketing strategico ma, soprattutto, è un visionario: concepisce idee che – di primo acchito - sembrano fantascientifiche o semplicemente irrealizzabili ma poi, grazie ad una professionalità ineccepibile, si trasformano in progetti e infine vengono realizzate con successo. Abbiamo parlato con lui del suo quartier generale operativo (gli studi “Jungle Sound” di Milano) e dello slancio con cui sta dando un volto alla musica dal vivo online.

Il tuo curriculum è molto vasto, ma come è cominciato tutto?
"Direttamente con la musica: dopo aver militato in diverse formazioni ho iniziato a suonare con i Ritmo Tribale e con loro ho lavorato per 17 anni. Sai, era una di quelle band nate dalla semplice passione di un gruppo di amici che, una volta imbracciati gli strumenti, hanno iniziato a fare sul serio. Abbiamo seguito il percorso che ogni band emergente sogna, dal contratto con la grande etichetta ai numerosi concerti (ne facevamo più di 100 ogni anno). Riuscimmo a conservare l'attitudine, la spontaneità e la indole della cult band."

I Ritmo Tribale suonarono anche all'estero?
"Sì, in più occasioni. Proprio durante una lunga trasferta che ci portò dappertutto (dalla Germania all'Algeria agli Stati Uniti) e ci consentì di frequentare le sale prova di mezzo mondo, mi venne l'idea di realizzare uno studio d'incisione che non era mai esistito, per lo meno a Milano."

Uno studio classico?
"Non proprio. All'inizio c'era la possibilità di incidere ma esistevano -ad esempio- anche sale da ballo. Ma di lì a poco ho focalizzato l'attenzione unicamente sulla musica. Trovammo uno spazio in un ex-capannone industriale dismesso e ci mettemmo al lavoro, ristrutturandolo da cima a fondo: erano nati gli studi Jungle Sound. Creammo una struttura perfettamente funzionale. Per una fortunata coincidenza, di lì' a un anno molte etichette importanti (le cosiddette major) crearono le loro "finte" etichette indipendenti, come la "Black Out". Jungle Sound puntò sulla discografia e realizzammo produzioni di buon successo, come Karma e Scisma."

Lavoravate anche su commessa?
"In un certo senso sì. Ad esempio un produttore esecutivo si rivolgeva a noi e ci chiedeva di realizzare un prodotto finito, ovvero un disco completo. Noi lo facevamo, coprivamo tutte le fasi del processo produttivo e consegnavamo il prodotto finale. E' stato così per molti lavori di band o artisti affermatissimi, dagli 883 a Gianna Nannini ad Alex Britti.Ma sul finire degli anni '90 le cose cominciarono -purtroppo- a cambiare."

Parli della crisi della discografia?
"Già. Nel 1996 l'industria discografia accusò la prima battuta d'arresto ma solo nel 2000 avvertimmo profondamente i segnali di una crisi devastante, che riguardava il mercato ed i suoi meccanismi, non certo la musica che invece in crisi non è mai stata, pensa soltanto alla capillare diffusione odierna dei brani musicali attraverso le suonerie dei cellulari o al fatto che la musica è particamente ovunque."

Come reagiste alla situazione?
"Differenziando la nostra offerta e puntando sul fatto che "Jungle Sound" era diventato, prima di tutto, un meeting point all'interno del mondo musicale, milanese e italiano. Qui si incontravano, e si incontrano tutt'ora, artisti e discografici. Ci chiedemmo: a chi può servire la musica? Chi può permettersi di pagarla o comprarla? Come facciamo ad incassare e a far girare i soldi? Così decidemmo di seguire la strada degli spot pubblicitari, che si rivelò vincente grazie alla formula che avevamo approntato: il nostro punto di forza era il data base di musicisti che potenzialmente potevano lavorare per noi, un vero e proprio polmone artistico che, alla stregua di una serie di staff esterni, avrebbe realizzato brani ex-novo, prodotti da noi. Stringemmo rapporti con clienti come la nascente compagnia telefonica "3", poi arrivarono anche grandi nomi come Nestlé e Ferrero. Lavorammo sempre in outsourcing, cioè noi acquisivamo la commessa e gli artisti realizzavano la musica."

A questa attività in seguito si affiancarono altre iniziative?
"Il lavoro di consulenti musicali, che svolgemmo e tutt'ora svolgiamo per clienti come Unilever (proprietaria dei marchi Algida, Findus, ecc) o Unicredit. La nostra attività di consulenza si basa su un know-how che le aziende non possiedono, perchè il mercato musicale è fatto di piccole, complicate regole che noi -vista la nostra esperienza pluiriennale- conosciamo bene. Questa competenza permette alle grandi compagnie di potersi affidare a noi e di evitare fregature o scocciature. Il passo successivo è stato quello di dire: le idee non ci mancano, cosa aspettiamo a proporle alle aziende? Vediamo se sono intenzionate a realizzarle. Così è stato. Abbiamo iniziato con l'Heineken Contest, un grande evento nato per dare alle band –soprattutto emergenti- la possibilità di esibirsi. La location scelta è stata Imola. L'edizione iniziale si è tenuta nel 2005. La selezione delle band finaliste è durata 45 giorni (nel corso dei quali abbiamo ricevuto ben 1600 iscrizioni!). Sono state selezionati 15 gruppi: 3 destinati al main stage, gli altri 12 al palco "b". E' stato un grande successo e Heineken ha deciso di abbracciare la nostra nuova proposta: un tour in 15 locali italiani selezionati, nel corso del quale le band avranno una grande occasione di visibilità. Un pool di giornalisti e professionisti selezionerà il gruppo migliore, che avrà diritto a 30 giorni di sala d'incisione, per poter realizzare un album come si deve. Insomma, musicalmente parlando è una cosa seria."

Jungle Sound, oggi, è anche un palco web, il "Palco di Alice"...
"Sviluppando i progetti per Heineken ho avuto una nuova idea, nata dal desiderio di continuare a lavorare con la musica dal vivo anche se in modo più attuale, vicino cioè agli strumenti che la tecnologia mette oggi a nostra disposizione. Il "Palco di Alice" si trova all’interno del portale di Rosso Alice e, in realtà, concretizza un'idea sulla quale lavoravo da 5 anni. Ho valutato la possibilità di realizzare questo progetto con molti partner potenziali. Rosso Alice ha detto: sì, ci piace. Posso dire che il “Palco di Alice” è la dimostrazione che la tenacia porta sempre ad un risultato concreto."

Come funziona il "Palco di Alice"?
"C'è un piccolo studio con la regia e la sala dove si esibisce la band, ripresa dalle telecamere e trasmessa in diretta online. Al momento è possibile collegarsi solo dall'Italia ma confidiamo, in futuro, di estendere la possibilità all'estero. In contemporanea è partito anche un vero e proprio contest online, una gara dove le varie band si esibiscono e chi sta a casa, davanti al proprio computer, esprime il voto di preferenza. Fatto a 100 il totale dei voti, il 50% starà agli utenti, l'altro 50% ad una giuria di qualità. I vincitori avranno la possibilità di incidere per "H2O", l'etichetta digitale di SonyBMG; alle tre band finaliste andrà il privilegio di esibirsi in un importante locale milanese. Il contest durerà 16 settimane, nelle prime 15 ogni settimana verrà estratto un gruppo. La giuria cambierà di settimana in settimana e nella settimana conclusiva tutti i presidenti delle diverse giurie giudicheranno e sceglieranno i migliori."

Qual è dunque l'obiettivo di Jungle Sound oggi?
"Quello di diventare una azienda della musica a 360°, che offra servizi agli utenti, ai produttori, agli artisti, agli addetti ai lavori e soprattutto alle aziende, che in noi possono vedere un partner importante nell'ambito del marketing strategico legato alla musica. Le buone idee non ci mancano e, anche se a volte sembrano fantascientifiche, prima o poi riusciamo sempre a realizzarle."

> È l'ascolto della musica a determinare l'esistenza della musica stessa <

Intervista a Ezio Guaitamacchi

Ezio Guaitamacchi è una delle figure di riferimento nell'ambito dell'editoria musicale milanese. Negli anni '80 è tra i fondatori della rivista “Hi Folks”, dedicata alla musica country e rock. Sul finire del decennio successivo dà vita ad un nuovo progetto editoriale di successo, la rivista “JAM” che mese dopo mese informa in modo approfondito e attendibile migliaia di appassionati di pop e rock, con interviste ai musicisti, reportage, recensioni di album e concerti. Intorno a JAM ruotano molti progetti, come gli speciali “Rockfiles” dedicati -di volta in volta- a figure fondamentali della musica degli ultimi 40 anni, come Bob Dylan, Jimi Hendrix o Kurt Cobain. All'attività editoriale Ezio affianca anche quella di musicista, insegnante, scrittore e relatore a conferenze o seminari. Con lui abbiamo parlato di come è cambiato il rapporto tra la musica e i suoi fruitori nel corso degli ultimi 40 anni.

Ezio, sei stato tu ad avvicinarti alla musica o è stata la musica ad avvicinarsi a te?
“Per risponderti devo andare indietro di un bel po' di tempo, arrivando agli anni della pre-adolescenza. I miei primi ricordi associati alla musica sono legati alla figura di mio fratello, che quando io avevo circa 12 o 13 anni suonava con un gruppo. Lui era batterista, ma a me il suo strumento interessava poco, almeno a livello istintivo: ero molto più affascinato dagli strumenti suonati dai suoi amici, ovvero il basso o le chitarre. In particolare attendevo l'arrivo dell'eccellente chitarrista Maurizio “Icio” De Romenis -che oggi scrive i testi degli spettacoli di molti comici affermati del panorama nazionale- che aveva una fiammante chitarra Rickenbaker. Ricordo come fosse ora il suo arrivo, il gesto di aprire il fodero ed estrarre lo strumento...vedere la sua chitarra era straordinariamente eccitante. L'altro chitarrista possedeva uno strumento altrettanto glorioso, la Fender Telecaster bianca. Anche lui era un musicista bravissimo e si era studiato nota per nota tutti gli assoli di Eric Clapton.”

Che effetto ti faceva vedere tuo fratello e i suoi amici suonare?
“Era entusiasmante. Mi resi conto già all'epoca che guardare dei musicisti in azione superava di gran lunga qualsiasi esperienza di puro ascolto. L'esperienza visiva si faceva quasi tattile. E capivo molte cose grazie all'osservazione, soprattutto riguardo alla costruzione e alla struttura dei brani. Come musicista, in seguito, ho passato parecchio rtempo ad ascoltare i brani di altri compositori per capire come sono fatti, ma -azzardando un parallelismo con lo sport- è come prepararsi ad una competizione facendo esercizi su esercizi in palestra: una rottura di palle mondiale! Molto meglio esercitarsi sul campo, misurandosi direttamente con le cose da fare. Che in musica significa suonare con gli altri.”

Allora, siamo agli albori degli anni '70: riuscivi a trovare facilmente le informazioni relative ai vari musicisti che ascoltavi o seguivi?
“Proprio per niente. Le fonti di informazione erano limitatissime. Io -e come me tutti gli appassionati di musica- passavamo al setaccio le copertine dei pochissimi album che riuscivamo a procurarci in modo quasi rocambolesco, leggevamo con meticolosa attenzione anche la più piccola nota. Allo stesso modo guardavamo o studiavamo le fotografie contenute. Mi ricordo che pressai la mia povera mamma per farle trovare le stesse toppe dei blue-jeans che aveva Neil Young in una certa foto. E lei dovette farsi in quattro per riuscire ad accontentarmi.”

Come inizia la tua attività di musicista?
“Arriviamo ai tempi del liceo. Frequentavo il quarto anno e formai un gruppo che eseguiva solo canzoni di Crosby, Stills, Nash &Young. Eravamo in grandissimo anticipo rispetto alla recente moda delle cover o tribute band. Il gruppo era formato da quattro persone. La “parte” di Neil Young venne affidata all'amico Fabrizio Bentivoglio, oggi affermatissimo attore, che stupidamente decidemmo di allontanare dal gruppo, perchè secondo noi non aveva abbastanza talento e non sarebbe andato -musicalmente parlando- da nessuna parte. Rinunciando a lui rinunciammo anche allo stuolo di amiche e ammiratrici che già all'epoca si portava appresso.”

E dopo aver perso Bentivoglio/Young cosa successe?
“Il fatto di amare il country-rock ci avvicinò al lavoro di gruppi come la Nitty Gritty Dirt Band, i Poco, i Flying Burrito Brothers, che conoscemmo musicalmente grazie ad un amico il quale, al ritorno da un viaggio negli Stati Uniti, ci fece scoprire le canzoni di tutti i grupppi che ti ho citato. In Italia non li conosceva praticamente nessuno! Sentire il suono del violino o del banjo ci affascinò, al punto che uno di noi acquistò proprio un banjo -a 6 corde- e cercò di suonare i pezzi dei vari gruppi, senza riuscirci. Ricordo che un giorno esclamò, frustrato: ma è impossibile suonare 'sta roba, ci vogliono delle dita lunghissime. Fui io a scoprire, nel corso del mio primo viaggio in America (1976) che il banjo utilizzato nel country ha...5 corde! Tornai in Italia portando la grande rivelazione: è questo il banjo che viene usato nella musica che ci fa impazzire!”

Insomma, se uno voleva delle informazioni doveva mettersi in viaggio!
“Eh sì, altrimenti non ti restava che brancolare nel buio. Almeno fino a quando non capitava che -per caso o per fortuna o per tutt'e due le cose- l'informazione chissà come arrivasse.”

Trovare i dischi che ti interessavano era facile o difficile?
“A volte era semplicemente impossibile. Nei primi anni '70, giusto per farti un esempio, a Milano i dischi di Neil Young erano irreperibili! E dovevo andare a Gallarate, al negozio di Paolo Carù (che in seguito fonderà la rivista “Ultimo Buscadero”) per riuscire a trovarli, visto che li importava direttamente. Non ti dico se andavo a cercare delle cose di nicchia. Alla fine degli anni '70 mi avvicinai al folk irlandese e al bluegrass: non c'era nulla!”

Esistevano le riviste musicali per appassionati come te?
“Negli anni '70 c'era tutto il comparto delle riviste alternative, come “Gong”, che tuttavia avevano una forte connotazione politica, mentre a me interessava principalmente la musica. In seguito arrivarono “Popster” e “Mucchio Selvaggio”, mentre la storica “Ciao 2001” seppe adattarsi ai cambiamenti in atto e si rinnovò profondamente. Ecco, queste erano le nostre fonti di informazione.”

TV o Radio?
“Ma no, figurati. Solo Renzo Arbore -che ha sempre avuto un gusto ed un fiuto non comuni- faceva eccezione, trasmettendo musica obiettivamente eccezionale.”

Sapevate cosa succedeva sulla scena rock mondiale?
“Sì, soprattutto grazie al cinema. I grandi festival diventavano film che venivano proiettati all'interno di rassegne divenute leggendarie. A Milano c'era il “Cinema Leonardo” (oggi è un importante teatro che ospita rappresentazioni non convenzionali o sperimentali), ubicato nei pressi del Politecnico, dove vidi i film di Woodstock o del Monterey Pop Festival, ed anche veri e propri concerti di una sola band, come “Yes Songs” o “Pink Floyd Live At Pompei”!”

Quindi erano rassegne dedicate alla musica e non ad un genere (o sottogenere) particolare...
“Esatto, non esistevano divisioni, preclusioni o steccati per gli appassionati: ascoltavamo tutto, dai Led Zeppelin a Joan Baez, da Jimi Hendrix a Sly & The Family Stone. A seconda dei gusti magari c'era la proposta che ti annoiava a morte e quella che ti galvanizzava, ma ciò che contava era vedere, assaporare il concerto. Questo superava qualsiasi discriminante.”

Parlando di concerti veri, qual è il primo grande concerto di cui hai memoria?
“Jethro Tull, 1972, era il tour di “Aqualung”. Avevo solo 14 anni (e infatti andai al concerto al seguito di mio fratello, che ne aveva ben 19!). Fu indimenticabile, uno shock assoluto.”

Come ricordi la stagione dei concerti rock italiana degli anni '70?
“Sicuramente come una stagione breve, che venne bruscamente interrotta da una serie di disordini che, con la musica, non avevano niente a che fare. Ricordo il drammatico concerto di Carlos Santana a Milano, sul cui amplificatore arrivò una bomba molotov. Da lì in poi ci fu la messa al bando dei concerti che durò a lungo, trasformando noi rockettari in improbabili cultori di generi come il folk celtico o il free-jazz. Cose rispettabili, certo, ma noiosissime! Eppure non c'era altro da vedere dal vivo: o quello o niente, visto che sul rock era calato il sipario.”

All'epoca riuscivi a decifrare le ragioni dei disordini di cui mi parlavi?
“Sinceramente no. L'ho capito molto tempo dopo. Ieri come oggi i veri appassionati che vanno al concerto per la musica sono pochi. La maggioranza è lì per ragioni -più o meno nobili- che non c'entrano un bel niente. Anche negli anni '70 c'era chi andava ad un grande concerto perchè era un momento di forte aggregazione. Ma c'era chi chiedeva alla musica di rappresentare o cavalcare un certo spirito di contestazione, mentre alla maggior parte degli artisti premeva suonare. Capitavano anche cose stravaganti come il famigerato “processo a De Gregori”. Certo, c'erano musicisti fortemente impegnati da un punto di vista politico, come gli Area, Gaetano Liguori, gli Stormy Six. Ma tutti gli altri, seppur ideologicamente schierati, non “marciavano”.”

Tu venivi a sapere delle varie contestazioni ai concerti attraverso i giornali?
“No, quali giornali! Io c'ero, mio malgrado. Tutte le volte che scoppiava qualche disordine io ero lì. Led Zeppelin, Santana, Chicago, Soft Machine, Jethro Tull o Yes al Teatro Lirico. Non so per quale strana coincidenza -forse semplicemente perchè andavo a tutti i concerti di tutte le band che passavano da Milano- mi trovavo in mezzo agli eventi contraddistinti da incidenti più o meno gravi (ad esempio, al concerto dei Chicago presso l’Arena ci fu un morto e non so quanti feriti). Purtroppo la sensazione della massa in panico o l'odore dei lacrimogeni -che, ti assicuro, fanno davvero piangere- mi è rimasto dentro. Ogni volta che, all'ingresso di un palazzetto o di uno stadio, vedo la camionetta della polizia sento una certa inquietudine.”

Ultima domanda: credi che l'avvento della musica digitalizzata toglierà valore a disco o cd?
“No, secondo me no. Questi sono ragionamenti che spesso fa l'industria discografica. Non dimenticare che la stessa industria, negli anni '30, dichiarò allarmata: stiamo per chiudere, perchè un mezzo di comunicazione vi fa sentire gratuitamente quello che noi vendiamo e questo mezzo è la radio. Oggi, come tutti sanno, le case discografiche pensano che se un disco non passa in radio non venderà e corteggiano, anche in modo imbarazzante, le emittenti radiofoniche, che poi -alla fine- trasmettono tutte la stessa musica. Addirittura si sono inventati il “music control”, questo indice che serve per valutare qual è l'efficacia di un certo brano. Tutte cazzate. La riproducibilità della musica consente all'ascoltatore di fruirne ogni qual volta lo desideri. È una posizione passiva, forse, ma è il punto di forza: è l'ascolto della musica a determinare l'esistenza della musica stessa. Oggi negli Stati Uniti le Jam Band hanno fatto capire alla gente che il concerto è unico ed irripetibile. Quindi lo registrano e lo mettono in vendita: lo stesso brano non verrà eseguito allo stesso modo nelle performance successive. E grazie agli attuali strumenti di comunicazione (internet su tutti) è possibile informare molte persone di quanto accaduto nei vari concerti, in tempo reale o quasi. Oggi gli artisti hanno la grande occasione di lavorare con i tecnici per far progredire davvero l'arte. Anche se non va dimenticato che le arti non sono sempre in evoluzione. Ci sono periodi bui e altri luminosi. Se pensi al pop-rock, la “golden-age” c'è già stata, ma il livello si mantiene alto. Certo, ci sono tanti prodotti minori in giro, ma non bisogna farsi condizionare da questo: la buona musica c’è e continua ad esistere.”

 

> È possibile passare anche un messaggio musicale diverso dal solito ottenendo dei riscontri positivi <

Intervista a Giorgio Albiani

Giorgio Albiani è un chitarrista e compositore che, nel corso della propria carriera, ha saputo spaziare tra le tradizioni della musica italiana ed europea, dalla classica alla popolare alla world music.
Il suo è un approccio aperto, che travalica le divisioni di generi, come lui stesso ci ha raccontato.

Come musicista, qual è la tua storia?
"Ho iniziato a strimpellare e suonare la chitarra da piccolo, da autodidatta. In seguito ho deciso di approfondire lo studio sullo strumento. Mi sono iscritto al Conservatorio, dove mi sono diplomato nel 1986. Dopodichè ho affrontato un ulteriore percorso di studi classici alla "Normale" di Parigi. Mi sono fermato quattro anni nella capitale francese e ho avuto modo di lavorare parecchio in ambito concertistico. Tornato in Italia ho messo su uno studio di registrazione, affiancando all'ambito per me consueto della musica classica anche quello della musica tradizionale e popolare. In quel periodo ho fatto parecchi lavori in cui la musica era profondamente legata al testo."

Quali lavori ricordi di quel periodo?
"Il più importante è sicuramente la sonorizzazione di alcuni canti della "Divina Commedia", con voce recitante -tra gli altri- di David Riondino. Ma in generale credo che la cosa più importante sia stata quella di trovarsi a mescolare, esperienza dopo esperienza, tanti tipi di musica e, di conseguenza, tante forme di pensiero artistico."

Ti sei confrontato anche con altri territori musicali?
"Sì, c'è stata una lunga e importante esperienza nell'ambito della musica elettronica, che rispetto ad altri generi è sicuramente molto intellettuale ma permette di lavorare in situazioni interessanti. C'è più leggerezza rispetto alla musica classica, ma l'elettronica consente l'accesso a molti mondi e l'esperienza acquisita può, in seguito, essere trasportata anche in contesti diversi. D'altra parte la tecnologia semplifica alcuni passaggi ma anche i lavori apparentemente più semplici, come la realizzazione di un jingle o la realizzazione di un commento sonoro alle immagini, richiedono una competenza molto vasta."

Credi che il conservatorio sia aperto ai cambiamenti in atto nel mondo della musica?
"Per quanto mi riguarda il conservatorio non è e non deve essere un universo chiuso e refrattario. Infatti io opero da sempre spostandomi tra molti ambiti, senza preclusioni di sorta."

Su cosa stai lavorando in questo periodo?
"Ho appena terminato la realizzazione di due progetti legati alla musica popolare. A breve uscirà un disco live e, inoltre, c'è una produzione messa in cantiere con un gruppo francese che ha portato avanti una vastissima ricerca linguistica, seguendo un tracciato geografico che parte da Montpellier e arriva sino a noi. In concomitanza con queste cose ci sono state alcune uscite per una piccola etichetta fiorentina, che hanno raccolto critiche molto buone. In queste settimane sto lavorando con due musicisti e l'album che produrremo uscirà -se non ci sono cambiamenti in corso d'opera- per l'etichetta de "il manifesto".

Di cosa si tratta?
"Musicalmente siamo vicini al jazz. I commenti sonori sono legati alla trasposizione di una storia di droga, ma i toni non sono drammatici, bensì fiabeschi ed evocativi."

Siamo abituati a sentire molto pop e rock: come reagisce il pubblico alla musica popolare?
"Di solito molto bene. Ho iniziato a dedicarmi alla musica popolare su richiesta di grandi etichette come Emi prima e Warner poi. Volevano che mi occupassi di arrangiamenti per sonorizzazioni. In un primo istante non ero affatto convinto che fosse un'esperienza interessante, ma mi sono dovuto ricredere, soprattutto grazie all'entusiasmo e all'apertura mentale dei musicisti con i quali ho avuto il piacere e la fortuna di lavorare. Mi sono trovato anche a condividere lo stesso palco con dei miti del rock come i Jethro Tull."

Che effetto ti ha fatto suonare davanti al pubblico dei Jethro Tull?
"Immagina una piccola formazione (1 chitarra e 3 voci) abituata ad audience ristrette che, improvvisamente, ha davanti 10.000 persone! Il primo impatto fu altamente emozionante, ma poi superammo questa fase e suonammo con grande trasporto. La gente reagì benissimo. E' vero che la massa -di solito- è abituata a sentire sempre le stesse cose ma noi, in quell'occasione, abbiamo avuto la dimostrazione che è possibile passare anche un messaggio musicale diverso dal solito ottenendo dei riscontri positivi. E' fondamentale non dimenticare le proprie radici. Gli italiani hanno un passato musicale importantissimo, invidiato in tutto il mondo, è li che sta tutta la nostra forza. Inoltre le differenze linguistiche -anche dialettali- e ritmiche sono basilari e andrebbero rivalutate."

Credi che se a scuola si studiasse la musica ci sarebbe un maggior interesse da parte del pubblico?
"Credo che la percezione cambierebbe, in senso positivo. Se ci pensi, di fronte ad una qualsiasi opera d'arte c'è attrazione se chi guarda o ascolta ha le chiavi per comprendere le opere. Curiosità e intelligenza si mettono in moto, la testa lavora e fa gli opportuni collegamenti, ogni forma espressiva può diventare coinvolgente. La scuola dovrebbe essere il luogo in cui viene tenuta in vita la tradizione musicale, senza naturalmente cadere in trappole o compartimenti stagni."

Sei a favore di una contaminazione tra generi musicali?
"Esistono tanti mondi (o generi) ma la genialità sta nel riuscire a metterli in contatto tra di loro. E' il lavoro che hanno realizzato compositori come John Williams o Ennio Morricone, che hanno saputo pescare in ambiti diversi, ma in modo serio e strutturato, per poi creare le giuste atmosfere che avrebbero sottolineato immagini o situazioni."

Oltre a quelli che hai citato, hai degli artisti di riferimento?
"Il primo, grande amore musicale è Fabrizio De André, che ben rappresenta un importante percorso di crescita artistica. Ha iniziato ispirandosi agli chansonnier francesi e poi è arrivato a concepire un capolavoro come "Anime Salve", opera di grande spessore che sapeva collocarsi ad un altissimo livello anche da un punto di vista tecnologico. Per quanto riguarda gli stranieri le mie passioni vanno dai Deep Purple ai Supertramp ad Alanis Morissette, ma è sempre difficile restringere il campo a pochi nomi."

Quali strumenti usi per ascoltare la musica?
"Dipende. Quando sono in viaggio ho il mio lettore MP3, piccolo e comodo. Ho sempre con me anche il PC portatile, molto utile quando si tratta di annotare le molte idee che mi vengono tra uno spostamento e l'altro. A casa ho di tutto: dai piccoli riproduttori economici ai raffinati impianti che consentono di gustare fino in fondo anche la singola nota. In ogni caso, se posso ascolto la musica in cuffia, per immergermi totalmente in quello che sento."

> Abbiamo cercato l’indipendenza per poter lavorare e poter dare vita a nuovi canali di diffusione del lavoro dei nostri artisti <

Intervista a Marco Conforti

Casi Umani è una società di consulenza artistica, gestionale, marketing e commerciale attiva a Milano dal 1993. In particolare Casi Umani è specializzata nell’elaborare e gestire progetti di marketing che prevedano l’incontro tra partner artistico-editoriali (artisti, etichette discografiche, editori, produttori culturali, festival ed eventi in genere) e partner industriali e commerciali che abbiano l’esigenza di utilizzare la musica o, più in generale, contenuti culturali e di entertainment per le proprie attività di marketing e comunicazione.
In questi anni di attività Casi Umani ha sviluppato e gestito le carriere artistiche di alcuni tra i protagonisti della nuova scena musicale italiana, tra i quali Elio e le Storie Tese, Neffa, Sottotono e Casino Royale, e ha ideato e realizzato progetti di marketing, eventi, produzioni media ed editoriali per marchi come Adidas, Ballantine’s, Istituto Europeo di Design, Red Bull, Virgilio e molti altri.
Abbiamo incontrato Marco Conforti, direttore generale della Casi Umani, per parlare delle nuove esperienze di fruizione e possesso della musica, dall'instant CD all'instant download.

La realizzazione degli “instant CD” di Elio e Le Storie Tese, ovvero la registrazione di un concerto venduta la sera stessa è nata due anni fa. Cosa bolle in pentola oggi?
“Dall’anno scorso diamo al pubblico anche la possibilità di scaricare direttamente un concerto in un proprio supporto digitale, che sia l’iPod, il comune lettore MP3 o la chiavetta USB. È l’instant dowload. Questo livello di commercializzazione del prodotto-concerto di Elio e Le Storie Tese nasce da un’opportunità maturata alcuni anni fa, quando decidemmo di renderci indipendenti dalle case discografiche per poter lavorare in modo libero sulla musica.”

Questo significa che un gruppo sotto contratto con un’etichetta non ha libertà di azione?
“Sì, l’indipendenza è una condizione imprescindibile. Le case discografiche detengono, cioè possiedono tutti i diritti sulla produzione e divulgazione dell’opera dei loro artisti, e decidono cosa si può e non si può fare. Noi ci siamo emancipati da questo vincolo e poi abbiamo analizzato, studiato, progettato e infine realizzato un modello che aveva ed ha l’obbiettivo di attivare delle linee di ricavo dirette.”

Cosa intendi?
“Instaurare un rapporto che unisce e mette in comunicazione diretta l’artista e l’utente finale, come dire dal produttore al consumatore. I concerti radunano fisicamente all’interno di un’area definita il pubblico. Internet raccoglie intorno ad uno stesso sito un mondo di fan, grazie ad un canale immateriale equipaggiato, se non nato, per garantire il rapporto diretto tra i navigatori e il gestore del sito stesso. Noi, come Casi Umani, abbiamo ideato delle iniziative che sono coincise con la produzione di instant cd e instant download.”

Avete anche realizzato degli “instant DVD”, non è vero?
“C’è stato un primo instant DVD in forma di test, l’anno scorso, a Villa Arconati, nei pressi di Milano. Il secondo test è previsto per il 21 maggio, a Pisa: Elio e Le Storie Tese suoneranno al Teatro Verdi per un’iniziativa di Telecom Progetto Italia. Filmeremo il concerto, produrremo il DVD e lo venderemo la sera stessa. Sono in corso alcune valutazioni che ci porteranno a decidere se fare gli instant DVD anche nel corso del tour estivo del gruppo.”

Quale sarà il prossimo passo?
“Siamo interessati a sviluppare un ulteriore livello di diffusione della musica, con il wireless. D’altra parte se chi viene al concerto può comprare l’instant CD dello stesso oppure scaricarlo sul suo iPod, perché non allargare il discorso all’etere? Ed è possibile realizzare questo sia con un partner telefonico, oppure in modo più artigianale -e secondo me è una via altrettanto interessante, se non di più- con una rete wireless locale.”

Ma il wireless fa già parte della “quotidianità tecnologica” della gente?
“Non in modo massiccio, ma è solo questione di tempo. Il wireless ci interessa e vorremmo, come ci è capitato in altri contesti tecnologici, essere i primi a fare sperimentazione anche in questo ambito. Il nostro scopo è quello di aumentare le relazioni, anche commerciali, tra pubblico e artista. Chi va al concerto, in questo modo, quando si spengono le luci possiederà dei contenuti che resteranno nelle sue mani e che potrà continuare a consumare anche dopo.”

Il pubblico di Elio e Le Storie Tese come ha reagito alle vostre iniziative?
“Bene, anzi meglio di quanto potessimo immaginare. L’aspetto più bello è che si è dimostrato pronto. Noi abbiamo voluto scommettere su questa possibilità e i risultati ci hanno dato ragione. Da molti anni sostengo che le aziende e il mercato, anziché stimolare o incentivare i consumatori, tendono a frenare la tendenza al consumo digitale ed interattivo. Il peer-to-peer dimostra la forte spinta al consumo digitale, ma ci sono ancora lotte per affermare gli standard. Sono lotte che non hanno niente a che vedere con la diffusione del prodotto artistico, ma ne rallentano la diffusione.”

Come vedi l’esperienza di Apple, che ha fornito una piattaforma efficiente ed ha incentivato la vendita di brani online?
“Bene, perché Apple ha integrato hardware e software in modo intelligente e funzionale, facilitando i processi commerciali legati alla musica via internet. Ma la maggior parte delle altre aziende ha solo cercato di limitare, bloccare o denunciare chi scaricava illegalmente. I diritti degli artisti vanno protetti, ma blindare tutto non è la soluzione. Anzi, questo tipo di soluzioni danneggiano i consumatori che, dal canto loro, se non trovano i contenuti legalmente, ovviamente scaricheranno illecitamente. Sono convinto che quando si sviluppa un mercato legale, perlomeno nel mondo civile, c’è un assestamento fisiologico tra chi sguazza nell’illegalità e chi, invece, preferisce stare nella legalità.”

Qual è il punto di arrivo del vostro percorso di innovazione?
“Lavorare nel business della produzione e diffusione di contenuti artistici. In Italia nessuno fa Ricerca & Sviluppo in questo senso e allora provvediamo per conto nostro. Noi abbiamo cercato l’indipendenza per poter lavorare e poter dare vita a nuovi canali di diffusione del lavoro dei nostri artisti. Siamo in una posizione privilegiata perché, come Casi Umani, rappresentiamo un insieme di forze: artista, casa discografica e soggetto che produce lo spettacolo.”

Obiettivi?
“Vogliamo andare avanti, posizionarci come avanguardia nell’ambito Ricerca & Sviluppo, nell’incontro tra tecnologia e produzione culturale. Intendiamo mettere a punto il nostro modello di business, che stiamo costruendo da zero e che sostanzialmente vede la trasformazione dell’artista in un canale media che fornisce direttamente contenuti, nei concerti e/o nelle Reti, facendo in modo che gente venga, come dire, ad abbeverarsi direttamente alla fonte, abbreviando la filiera e rimettendo in attivo una linea di attività, quella delle produzioni discografiche che, da quando è iniziata la crisi del sistema discocentrico, è in declino e va assolutamente rimessa in attivo. L’attività di produzione di contenuti registrati è una voce irrilevante, mentre le prospettive future sono quelle per cui ciascun artista, nel momento in cui produce eventi e contenuti in studio, diventa egli stesso un canale di diffusione e distribuzione di contenuti, possibilmente guadagnando da tutte quelle attività che prima delegava a casa discografica, distributore, ecc, ovvero tutti quei soggetti che erodevano una parte del margine di guadagno.”

Ci sono altri che vanno nella vostra stessa direzione?
“Il sistema della musica, in questo momento, non mostra la volontà di seguirci sulla stessa strada .Nessuno vuole rinunciare alla garanzia di un contratto discografico e autogestirsi, autoprodursi, autodistribuirsi.
Elio e Le Storie Tese non stipuleranno mai più contratti con delle etichette. Non ci sono discorsi ideologici alle spalle, ma ragioniamo in termini molto pratici: gli spazi si restringono, gli investimenti anche e bisogna reagire. Il nostro modello, ne sono convinto, si imporrà con la forza della necessità.”

www.elioelestorietese.it


Alcune riflessioni di Elena Rapisardi - project manager - sui costi della musica


Foto di Alessandro Ferrini